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Sentenza

Giurisprudenza
Giurisprudenza "Il dovere che entrambi i coniugi hanno di mantenere, istruire ed educare la prole, sancito dall’art. 147 c.c., non impone obblighi soltanto nei confronti dei figli, ancorché costoro siano ovviamente i primi beneficiari del dovere stabilito dal legislatore a carico dei coniugi. L’art. 144 stabilisce infatti l’obbligo per i coniugi di concordare tra di loro l’indirizzo della vita familiare, sì che le scelte educative e gli interventi diretti a risolvere i problemi dei figli non possono che essere adottati d’intesa tra i coniugi. Un atteggiamento unilaterale, sordo alle valutazioni ed alle richieste dell’altro coniuge, a tratti violento ed eccessivamente rigido, può tradursi, oltre che in una violazione degli obblighi del genitore nei confronti dei figli, anche nella violazione dell’obbligo nei confronti dell’altro coniuge di concordare l’indirizzo della vita familiare e, in quanto fonte di angoscia e dolore per l’altro coniuge, nella violazione del dovere di assistenza morale e materiale sancito dall’art. 143 c.c. Ove tale condotta si protragga e persista nel tempo, aprendo una frattura tra un coniuge e i figli ed obbligando l’altro coniuge a schierarsi a difesa di costoro, essa può divenire fonte d’intollerabilità della convivenza". Cass. civ. 2 settembre 2005, n. 17710
La separazione legale dei coniugi non pone fine al matrimonio, ma comporta l’attenuazione o il venir meno della maggior parte degli obblighi che dal matrimonio sono nati. In particolare, l’effetto principale della pronuncia della separazione è il venir meno dell’obbligo di coabitazione fra i coniugi. L’obbligo di reciproca collaborazione permane dopo la separazione con riferimento alle esigenze dei figli. Gli obblighi di reciproca assistenza permangono, ma muta la forma nella quale sono attuati: non più attraverso l’assistenza quotidiana che si realizza contribuendo ai bisogni dell’altro nella vita comune, ma attraverso il pagamento di un assegno di mantenimento (cfr. infra, § 5) che un coniuge può essere tenuto a versare al coniuge più debole. La separazione non fa venir meno i reciproci diritti successori dei coniugi, se non nel caso in cui essa sia pronunciata con addebito: in questo caso il coniuge a cui la separazione è addebitata perde i diritti successori nei confronti dell’altro (art. 548 c.c.; cfr. infra, § 2.8, in questo capitolo).

Il diritto di chiedere la separazione ha natura personalissima. Come tale esso non è disponibile; non è quindi suscettibile né di essere rinunciato, né di cadere in prescrizione, né di essere trasmesso, ad esempio per causa di morte.

Dalla natura personalissima del diritto a chiedere la separazione, conseguono alcune assai rilevanti conseguenze. La morte di uno dei coniugi in pendenza del giudizio di separazione determina, secondo l’orientamento giurisprudenziale dominante, la cessazione della materia del contendere (1). Per tanto, qualora il procedimento si trovi nella fase del giudizio di Cassazione, la morte di una delle parti comporterà l’annullamento senza rinvio della sentenza resa dalla Corte di appello (2).

Sempre sulla base della natura personalissima del diritto, si dibatte se il rappresentante legale della persona incapace possa presentare la domanda di separazione in nome e per conto del rappresentato. I tribunali hanno affrontato la questione con esiti opposti, talvolta escludendo la legittimazione del rappresentante, talaltra ammettendola con riguardo, segnatamente, all’iniziativa assunta dall’amministratore di sostegno. In quest’ultimo caso i giudici hanno però sottolineato la necessità di verificare che l’iniziativa del rappresentante corrisponda effettivamente alla volontà del titolare del diritto, dal momento che indubbiamente si tratta di una scelta fondamentale della vita, attinente alla sfera più intima della persona. Qualora sia il coniuge dell’incapace a chiedere la separazione, la giurisprudenza ha ammesso talora il tutore a costituirsi in giudizio, mentre in altri casi si è optato per la nomina di un curatore speciale (3).

Sempre dal carattere personalissimo dell’azione deriva l’inammissibilità dell’intervento di terzi in giudizio.

Il codice civile all’art. 151 precisa quali sono le condizioni in presenza delle quali la separazione può essere chiesta ed ottenuta: il verificarsi di fatti tali da rendere intollerabile la convivenza o il verificarsi di fatti tali da recare grave pregiudizio alla educazione della prole. È irrilevante, invece, che tali circostanze si siano verificate indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi.

Nonostante il formale contenuto nella norma ora ricordata, come si dirà meglio infra nel paragrafo successivo, da tempo la prassi giurisprudenziale sostanzialmente riconosce in capo a ciascun coniuge un vero e proprio diritto alla separazione. Tale circostanza rende poco utile, dal punto di vista pratico, tentare di individuare una casistica di motivi di separazione riconducibili alle due categorie individuate nell’art. 151 c.c.

1.1 L’intollerabilità della convivenza

L’intollerabilità della convivenza costituisce la causa che dà origine alla assoluta maggioranza delle separazioni. La dottrina si è a lungo interrogata su cosa si debba intendere per intollerabilità della convivenza e, in particolare, se essa debba essere valutata con criteri oggettivi, eventualmente facendo ricorso alla casistica o se possa bastare che il ménage coniugale risulti intollerabile anche ad uno solo degli sposi. Come è accaduto per altri aspetti della materia che ci occupa, la dottrina si è evoluta da posizioni più rigide e rigorose vicine ad una sensibilità sociale ancora legata all’idea di un matrimonio indissolubile, a posizioni che vedono nella separazione personale dei coniugi un riflesso della libertà dell’individuo. I sostenitori della necessità di individuare criteri oggettivi hanno sottolineato che, intendendo l’intollerabilità in senso soggettivo, si giunge al risultato di attribuire il diritto di domandare la separazione al coniuge che ha causato l’intollerabilità della convivenza, e ciò a dispetto della eventuale volontà dell’altro coniuge di mantenere l’unità familiare (4). Non mancano autori, attestati su posizioni intermedie, che propendono per una interpretazione della norma che tenga conto di entrambi i dati, sia quello oggettivo, sia quelli soggettivo (5).

La giurisprudenza abbraccia, da tempo, una interpretazione soggettiva della intollerabilità della convivenza basata sul presupposto che l’intera vicenda matrimoniale deve rispondere al principio del consenso, rilevante non solo nel momento della stipulazione del vincolo, ma anche successivamente per la sua sopravvivenza. Dunque, è sufficiente che uno solo dei coniugi non voglia continuare il percorso matrimoniale, anche per una sua disaffezione nei confronti dell’altro perché possa dirsi che la convivenza non è più tollerabile e perché possa essere pronunciata la separazione. (6)

GIURISPRUDENZA

"In tema di separazione personale dei coniugi, la condizione di intollerabilità della convivenza deve essere intesa in senso soggettivo, non essendo necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco di una sola delle parti, che sia verificabile in base a fatti obiettivi, come la presentazione stessa del ricorso ed il successivo comportamento processuale, con particolare riferimento alle risultanze negative del tentativo di conciliazione, dovendosi ritenere venuto meno, al ricorrere di tali evenienze, quel principio del consenso che caratterizza ogni vicenda del rapporto coniugale". 

Cass. civ. 5 agosto 2020, n. 16698.

La Corte di cassazione non ha mancato di sottolineare che la presentazione stessa del ricorso per separazione e il comportamento processuale delle parti nel momento in cui il presidente tenta la conciliazione dei coniugi, sono già di per sé elementi sufficienti a far ritenere non più tollerabile la convivenza. Del resto, sarebbe ben difficilmente conciliabile con il principio di autodeterminazione del singolo il fatto che un ricorso per separazione personale dei coniugi possa essere respinto perché l’autorità giudiziaria non ravvisa ragioni oggettive che rendano inevitabile una separazione.

Nella prassi, dunque, i tribunali italiani accolgono sempre e senza alcuna riserva la domanda di separazione. Di conseguenza quella che teoricamente è la domanda principale di un ricorso per la separazione giudiziale dei coniugi si risolve in una petizione di diritto, perché non si instaura in realtà alcun contenzioso in relazione a tale domanda. La domanda viene accolta sulla base di una motivazione che è spesso una mera clausola di stile.

PRASSI

Nella prassi dei nostri tribunali si possono individuare situazioni ricorrenti in presenza delle quali è stata riconosciuta l’intollerabilità della convivenza:

– la circostanza che i coniugi fossero separati di fatto al momento della domanda di separazione o che, malgrado la celebrazione del matrimonio, tra essi non si fosse mai instaurata una comunione di vita;

– il venir meno della affectio coniugalis, ovvero la cessazione dei sentimenti reciproci di affetto che caratterizzano il vincolo coniugale;

– una persistente incomprensione;

– l’incompatibilità di carattere;

– l’incomprensione tra i coniugi derivante dalla dipendenza di entrambi dalle rispettive famiglie d’origine;

- l’infedeltà coniugale;

– le accuse che le parti si sono rivolte reciprocamente dimostrando essere definitivamente venuta meno la comunione materiale e spirituale prima esistente tra le stesse;

– la dipendenza dall’alcol o da sostanze stupefacenti di uno dei coniugi;

– la diversità di credo religioso o la conversione di uno dei coniugi ad una diversa fede religiosa;

– l’interruzione della gravidanza effettuata dalla moglie senza il consenso del marito (caso in cui è stato tuttavia negato l’addebito);

– la malattia del coniuge, con riferimento al coniuge malato di mente che si rifiuta di sottoporsi alle cure, ancorché con la specificazione che la malattia deve accompagnarsi alla violazione dei doveri coniugali;

–  le violenze fisiche perpetrate a danno di un coniuge da parte dell’altro.

1.2 Il grave pregiudizio all’educazione della prole

Altra circostanza che secondo l’art. 151 c.c. legittima la separazione è il verificarsi di fatti che rechino grave pregiudizio all’educazione della prole. Si tratta di una causa di separazione che ha trovato scarsa applicazione nella prassi dei tribunali.

In dottrina taluno ha negato persino che il pregiudizio all’educazione della prole debba considerarsi come autonoma causa e fondamento della separazione personale fra i coniugi: essa rileverebbe, infatti, come manifestazione e come causa dell’intollerabilità della convivenza (7).

Fra le rare pronunce giurisprudenziali si segnala un arresto della Suprema Corte (8) secondo cui il pregiudizio all’educazione della prole si tradurrebbe, oltre che in una violazione degli obblighi del genitore nei confronti del figlio, anche in una violazione dell’obbligo di concordare con l’altro coniuge l’indirizzo della vita familiare.

Va segnalato, per inciso, che situazioni pregiudizievoli all’educazione della prole che dovessero emergere nell’ambito di un procedimento per la separazione dei coniugi portano all’assunzione, da parte del tribunale, di provvedimenti a tutela dei minori. Anche i provvedimenti più gravi, quali la sospensione e la decadenza dalla responsabilità genitoriale potranno essere pronunciati dal giudice della separazione (o del divorzio) se il relativo procedimento viene azionato prima che si attivi la competenza del tribunale per i minorenni secondo la formulazione dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione al codice civile successiva alla novella del 2012.

(1) Cass. civ. 3 febbraio 1990, n. 740.

(2) Cass. civ. 4 aprile 1997, n. 2944.

(3) Rispettivamente sulle due scelte: Cass. civ. 17 gennaio 1996, n. 364 e Cass. civ. 21 luglio 2000, n. 9582.

(4) C. Grassetti, in Commentario di diritto di famiglia, Cedam, Padova, 1992 a cura di Cian, Oppo, Trabucchi, pag. 682.

(5) M. Sesta, Manuale di diritto di famiglia, Cedam, Padova, 2021, pag. 166.

(6) Cass. civ. 5 agosto 2020, n. 16698; Cass. civ. 15 ottobre 2019, n. 26084; Cass. civ. 29 aprile 2015, n. 8713.Su questo tema e sul fondamento della prassi giurisprudenziale si veda L. Lenti, Diritto della famiglia, Giuffrè, 2021, pag. 690.

(7) A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, Giuffrè, Milano, 1984, pag. 492.

(8) Cass. civ. 2 settembre 2005, n. 17710.
Avv. Antonino Sugamele

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