Separazione: può contenere il patto che autorizza la vendita della casa familiare al reperimento di un lavoro dell'assegnatario?
Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 08/11/2022) 25-11-2022, n. 34861
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice - Presidente -
Dott. PAPA Patrizia - Consigliere -
Dott. CRISCUOLO Mauro - rel. Consigliere -
Dott. ROLFI Federico Vincenzo Amedeo - Consigliere -
Dott. AMATO Cristina - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23590/2017 proposto da:
A.A., rappresentata e difesa dagli avvocati SABRINA VARRICCHIO, DOMENICO PARRELLA giusta procura in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
B.B., elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE REGINA MARGHERITA 111, presso lo studio dell'avvocato GIUSEPPE SCIOSCIA, rappresentato e difeso dall'avvocato MARIA BONOMO in virtù di procura in calce alla memoria di costituzione di nuovo difensore;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 1350/2017 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 01/03/2017;
nonchè sul ricorso riunito 37/2019 proposto da:
A.A., rappresentata e difesa dall'avvocato SABRINA VARRICCHIO, giusta procura in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
B.B., elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE REGINA MARGHERITA 111, presso lo studio dell'avvocato GIUSEPPE SCIOSCIA, rappresentato e difeso dall'avvocato MARIA BONOMO in virtù di procura in calce alla memoria di costituzione di nuovo difensore;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 3244/2018 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 16/05/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/11/2022 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie delle parti.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. Con atto di citazione del 18 settembre 2013, B.B. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Cassino il coniuge A.A., affinchè, previa declaratoria dello scioglimento della comunione, per effetto delle separazione personale intervenuta tra i coniugi, fosse disposta la divisione dell'appartamento e del garage, acquistati in regime di comunione ordinaria, essendosi avverata la condizione (reperimento di un posto di lavoro da parte della convenuta), cui le parti in sede di separazione consensuale avevano subordinato la possibilità di vendita del bene.
Il Tribunale adito con la sentenza n. 190/2015 ha rigettato la domanda ritenendo non avverata la condizione apposta ai patti raggiunti in occasione delle separazione consensuale, atteso che la convenuta, che aveva effettivamente iniziato a lavorare nel 2008, era stata successivamente licenziata nel 2010, e cioè prima dell'introduzione del giudizio, circostanza questa che imponeva di ritenere ancora pendente la condizione sospensiva cui le parti aveva subordinato la possibilità della vendita del bene comune.
Avverso tale sentenza ha proposto appello il B.B. e la Corte d'Appello di Roma, con la sentenza n. 1350/2017, non definitivamente pronunciando, esclusa la nullità del patto apposto all'accordo intervenuto in sede di separazione, non potendo avere rilievo la circostanza che la casa fosse stata assegnata alla convenuta in quanto affidataria anche dei figli (prevalendo la volontà delle parti anche sul provvedimento di assegnazione), riteneva che si fosse verificata la condizione cui le parti avevano subordinato l'efficacia della vendita del bene comune.
In primo luogo, doveva escludersi che la vendita fosse a sua volta condizionata al venir meno del provvedimento di assegnazione, e ciò che rilevava era unicamente il fatto che la A.A. aveva trovato una collocazione lavorativa.
Non rilevava che la stessa fosse poi stata licenziata, e ciò in quanto una volta assunta, si era realizzata la condizione sospensiva. Peraltro, emergeva che la convenuta era stata titolare di partita IVA sino al 2014, il che induceva a ritenere che la stessa ne avesse sostenuto i relativi costi, in quanto comunque svolgeva delle prestazioni lavorative (come confermato anche dalle statuizioni in punto di concessione dell'assegno divorzile, che era stato infatti negato alla convenuta).
Inoltre, ancorchè non rilevasse specificamente la presenza in casa anche della figlia C.C., emergeva che quest'ultima aveva formato un proprio nucleo familiare, essendo anche divenuta madre, senza che potesse rilevare la sua assenza di mezzi di mantenimento, trattandosi di circostanza che l'avrebbe legittimata a richiedere al più gli alimenti, ma senza che potesse dubitarsi del venir meno dei presupposti per l'assegnazione della casa familiare.
La causa era quindi rimessa in istruttoria per il prosieguo delle operazioni di valutazione e divisione.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso A.A. sulla base di quattro motivi.
B.B. ha resistito con controricorso.
Successivamente la Corte d'Appello di Roma, nominato CTU, con sentenza definitiva n. 3244 del 16 maggio 2018, ha dichiarato l'immobile non comodamente divisibile e ne ha disposto l'attribuzione alla A.A., con condanna al pagamento dell'eccedenza in favore dell'ex coniuge, quantificata in Euro 107.500,00, oltre interessi legali, ponendo le spese di lite a carico dell'appellata, e quelle di CTU a carico delle parti al 50 % pro capite.
Disattesa la richiesta di sospensione del giudizio per la pendenza dell'impugnazione della sentenza non definitiva in cassazione, la Corte distrettuale rigettava altresì l'eccezione di nullità della CTU, atteso che il CTU era stato onerato di effettuare la comunicazione della propria relazione ai difensori delle parti e non ai consulenti di parte.
Era altresì disattesa la richiesta di dilazione della divisione, atteso che la figlia della coppia, come già appurato con la sentenza non definitiva, aveva acquisito una propria autonomia, e quanto alle condizioni del mercato immobiliare che sconsigliavano in quel momento la vendita, la sentenza osservava che dovendosi provvedere all'attribuzione alla stessa appellante incidentale, tali condizioni avrebbero avvantaggiato la stessa, che non poteva quindi invocarle per conseguire un differimento della divisione.
Era respinta anche la richiesta di costituzione di un usufrutto sulla quota di proprietà del marito, nonchè di detrazione dal conguaglio dovuto del debito del marito, attesa la mancata dimostrazione dell'effettiva consistenza di questo diritto di credito.
Nel merito, rilevava che non poteva addivenirsi alla divisione tra appartamento e box che andavano invece considerati in maniera unitaria.
Il bene, la cui stima andava determinata sulla base della CTU, doveva poi essere attribuito per l'intero alla A.A., unica dei condividenti ad averne fatto richiesta, con la condanna al pagamento dell'eccedenza, dovendosi altresì reputare che per effetto dell'attribuzione veniva meno il diritto di abitazione in favore della stessa.
Per la cassazione della sentenza definitiva ha proposto ricorso A.A. sula base di due motivi.
B.B. ha resistito con controricorso.
Le parti hanno depositato memorie in prossimità dell'udienza.
2. In via preliminare deve darsi atto dell'avvenuta riunione dei due ricorsi, dovendosi fare applicazione del principio secondo cui i ricorsi per cassazione proposti contro sentenze che, integrandosi reciprocamente, definiscono un unico giudizio (come, nella specie, la sentenza non definitiva e quella definitiva) vanno preliminarmente riuniti, trattandosi di un caso assimilabile a quello - previsto dall'art. 335 c.p.c., della proposizione di più impugnazioni contro una medesima sentenza (cfr. Cass. n. 9192/2017; Cass. n. 17603/2019).
Sempre in limine litis deve essere disattesa l'eccezione di improcedibilità del ricorso, sollevata per entrambi i ricorsi, per l'omesso deposito ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 1, del provvedimento di ammissione della ricorrente al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, atteso che come si ricava dalla lettura dei ricorsi (rispettivamente pag. 13 e pag. 10), al momento della loro proposizione era solo in corso di presentazione la domanda di ammissione al patrocinio, sicchè non essendo ancora stato concesso il relativo beneficio, non appare applicabile la norma su cui si fonda l'eccezione di improcedibilità proposta da parte controricorrente.
Sempre in via preliminare occorre dare atto del tardivo deposito della sola memoria di parte ricorrente predisposta per il ricorso proposto avverso la sentenza definitiva (avvenuto in data 31 ottobre 2022), il che ne preclude l'esame da parte del Collegio.
Ricorso avverso la sentenza non definitiva 3. Il primo motivo del ricorso denuncia la violazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, nonchè dell'art. 111 Cost., con la conseguente nullità o inesistenza della sentenza per carenza assoluta di motivazione, in quanto il giudice di appello avrebbe riformato la decisione di primo grado senza spiegare le ragioni di tale dissenso.
Il motivo è evidentemente infondato, proprio alla luce dei principi espressi dalle Sezioni Unite nella sentenza richiamata da parte ricorrente (Cass. S.U. n. 8053/2014).
La motivazione del provvedimento gravato appare ampiamente satisfattiva del cd. minimo costituzionale della motivazione, quale preteso dalla giurisprudenza di questa Corte, in quanto la medesima, lungi dall'esprimere un mero dissenso rispetto alle conclusioni del Tribunale, ha adeguatamente esplicitato le ragioni di tale diversa conclusione, partendo dalla disamina del contenuto degli accordi raggiunti tra i coniugi in occasione della separazione personale, ritenendo che una corretta interpretazione degli stessi deponesse per la irretrattabilità dell'effetto derivante dal verificarsi dell'evento condizionante. Ha altresì chiarito le ragioni per le quali non poteva darsi rilievo alla successiva perdita del lavoro della moglie (non senza esprimere un ragionevole dubbio circa il fatto che in realtà, sebbene fosse venuto meno il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la stessa avesse continuato a lavorare, avvalendosi della partita IVA rimasta aperta sino a poco prima della decisione del Tribunale), ed aggiungendo come fosse irrilevante il richiamo alla presenza di una figlia, sottolineando come in realtà quest'ultima fosse divenuta madre nelle more del giudizio, avendo formato un proprio nucleo familiare autonomo.
4. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione dell'art. 1353 c.c. e ss., nonchè dell'art. 1362 c.c. e ss..
Si deduce che nei patti di separazione omologati dal Tribunale in occasione della separazione consensuale tra le parti, i coniugi avevano concordato "per il futuro che laddove la sig.ra A.A. dovesse rinvenire un lavoro, la casa coniugale di proprietà comune al 50% verrà venduta ed il ricavato andrà assegnato pro quota ai proprietari. Con diritto di prelazione dei coniugi".
Si evidenzia che al momento della proposizione della domanda in primo grado e per tutto il prosieguo del giudizio non poteva ritenersi che si fosse avverata la condizione, in quanto la ricorrente, effettivamente assunta a tempo indeterminato nel 2008, era stata poi licenziata nel 2010.
Ha errato la Corte d'Appello nel ritenere che la condizione si fosse avverata, e che fossero irrilevanti le successive vicende lavorative della ricorrente, in quanto, dovendosi privilegiare la volontà delle parti, deve ritenersi che il reale intento dei coniugi fosse quello di condizionare la vendita alla permanente titolarità di un'occupazione lavorativa da parte della convenuta.
Inoltre, non sarebbe invocabile la previsione di cui all'art. 1359 c.c., non potendosi reputare che la mancata prosecuzione dell'attività lavorativa sia imputabile alla ricorrente, dipendendo tale evento anche dalle autonome decisioni del terzo datore di lavoro.
Il motivo è infondato.
La censura investe il tema, non particolarmente approfondito in giurisprudenza, ma tuttavia esplorato dalla dottrina anche in epoca anteriore all'entrata in vigore del vigente codice civile, della rilevanza del venir meno dell'evento condizionale dopo il suo avveramento o del verificarsi dello stesso dopo il suo mancamento: nella specie rileva la circostanza dedotta da parte ricorrente del fatto che, verificatasi la condizione sospensiva cui le parti avevano condizionato il patto di vendita del bene comune, siano sopraggiunte delle vicende che conducono al venir meno dell'evento o meglio, ricreano la situazione preesistente all'avveramento della condizione.
Rileva il Collegio come l'opinione prevalente in dottrina deponga a favore della soluzione dell'irrilevanza delle vicende sopravvenute, e ciò in applicazione del brocardo "condicio semel impleta non resumitur, condicio quae deficit non restauratur".
Il tema è stato indagato anche dalla dottrina successiva e mentre alcuni autori hanno reputato necessario distinguere tra l'ipotesi in cui l'evento condizionale sia costituto da un atto giuridico (ipotesi nella quale le vicende che rimuovono l'atto, come revoche annullamenti, ecc. incidono anche sull'avveramento della condizione) e quelle in cui sia un fatto, ove invece ogni sopravvenienza è irrilevante, altri autori hanno sottolineato invece la necessità di dover indagare le peculiarità del singolo caso concreto di volta in volta alla luce della volontà delle parti, ben potendo l'autonomia dei contraenti pervenire alla soluzione di considerare rilevanti, in tutto o in parte, gli avvenimenti, successivi all'avveramento della condizione, idonei ad influire sulla permanenza dell'evento condizionale.
Altra parte della dottrina, inoltre, suggerisce l'opportunità di tenere conto del fatto che il venir meno dell'evento successivo alla sua verificazione possa essere stato conseguenza delle scelte di una delle parti, titolare di un interesse contrario all'avveramento della condizione, poichè in tal caso sarebbe possibile fare ricorso alla previsione di cui all'art. 1359 c.c., imponendo di dover ritenere avverata la condizione, allorchè l'evento, inizialmente verificatosi, sia stato rimosso da uno dei contraenti per assecondare il proprio interesse in danno della controparte.
Ritiene il Collegio che sebbene la tesi che reputa possibile far venir meno l'efficacia del contratto condizionato, nell'ipotesi in cui intervengano delle vicende sopravvenute che rimettano la situazione di fatto nello stato originario contemplato in contratto, ponga serie problematiche in rapporto alle esigenze di tutela dell'affidamento del terzo che abbia eventualmente acquistato diritti dalle parti del contratto, confidando sull'avverarsi della condizione (situazione questa che però nel caso di specie non ricorre), anche a voler dare credito alla tesi più recentemente affermatasi in dottrina della valorizzazione della volontà, anche implicita, delle parti, il motivo non possa trovare accoglimento, in quanto mira surrettiziamente a contestare accertamenti di fatto istituzionalmente riservati al giudice di merito.
Va a tal fine ricordato che, secondo la risalente giurisprudenza di questa Corte, anche l'accertamento in ordine al verificarsi di un evento dedotto in condizione costituisce giudizio di fatto riservato al giudice del merito, sottratto ad ogni sindacato di legittimità, ove sorretto da congrua motivazione (Cass. n. 3458/1980).
Inoltre, costituisce principio di diritto del tutto consolidato presso questa Corte di legittimità quello secondo il quale, con riguardo all'interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale adottata dal giudice di merito, l'invocato sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato) rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore all'art. 1362 c.c. e ss., e sulla (in) coerenza e (il)logicità della motivazione addotta (cosi, tra le tante, Cass., Sez. 3, 10 febbraio 2015, n. 2465): l'indagine ermeneutica è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione.
In particolare, è stato precisato che in tema di interpretazione del contratto, il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi, delle quali la prima - consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti - è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui all'art. 1362 c.c. e ss., mentre la seconda - concernente l'inquadramento della comune volontà nello schema legale corrispondente - si risolve nell'applicazione di norme giuridiche, anche straniere, se ne è allegata e provata la riferibilità al contratto ed il relativo contenuto, potendo pertanto formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo. (Cass. n. 3115/2021 e sempre tra le più recenti Cass. n. 9996/2019).
Avuto riguardo al caso in esame, i giudici di merito hanno ritenuto che le parti avessero previsto come condizione sospensiva il solo reperimento di un lavoro da parte della ricorrente, e che fosse del tutto irrilevante, sempre nella volontà delle parti, la possibile perdita del posto di lavoro, e ciò in quanto, avuto riguardo all'iniziale condizione di disoccupata, ciò che rilevava al fine di rendere attuale ed efficace l'impegno a vendere, era che tale condizione fosse venuta meno. Inoltre, e ciò anche in risposta alle deduzioni difensive della ricorrente circa la necessità di tenere conto del successivo licenziamento, i giudici di appello, anche in questo caso con indagine in fatto non suscettibile di censura, hanno ritenuto che la permanente titolarità di partita Iva, quanto meno fino al 2014, facesse presumere la prosecuzione dello svolgimento di attività lavorativa, ancorchè non tramite un contratto di lavoro a tempo indeterminato, valutazione questa che non appare nemmeno adeguatamente censurata in ricorso.
La critica della A.A., sebbene formalmente compiuta con il richiamo alla previsione di cui all'art. 1362 c.c., non individua quale specifica norma di ermeneutica contrattuale sia stata violata dal giudice di appello, ma nella sostanza si limita a proporre una personale ed alternativa ricostruzione della volontà negoziale, ma senza che sia altresì evidenziata in punto di diritto, la ragione per la quale il diverso approdo interpretativo cui è giunto il giudice di merito debba essere reputato connotato da assoluta illogicità o implausibilità, limiti entro i quali è dato contestare l'individuazione della comune volontà dei contraenti.
5. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione dell'art. 336 quater c.c. e ss., e dell'art. 30 Cost., in quanto la sentenza impugnata non avrebbe dato conto della nullità del patto con il quale si prevedeva la vendita della casa familiare, senza tenere conto dell'esigenza di assicurare un'abitazione alla ricorrente ed alla figlia.
I giudici di appello hanno escluso che ricorresse l'eccepita nullità, sottolineando, in primo luogo, che l'accordo in sè non poteva reputarsi affetto da nullità, in quanto la previsione della vendita del bene comune, al verificarsi della condizione concordata, rientrava nella sistemazione dei reciproci rapporti patrimoniali, e ciò sul presupposto che tale vendita fosse di utilità per entrambi i contraenti.
Inoltre, è stato evidenziato che anche l'assegnazione della casa familiare al coniuge convivente con la prole rientra nella disponibilità delle parti (ben potendo non essere sollecitata in sede di separazione), dal che se ne traeva la conseguenza che la sostanziale rinuncia all'assegnazione per effetto della vendita, una volta verificatasi la condizione, rientrava in una valutazione di convenienza, senza che fosse possibile invocare la nullità della relativa previsione.
In secondo luogo, è stato poi evidenziato che la figlia dei coniugi aveva nelle more raggiunto una propria autonomia familiare, essendo a sua volta divenuta madre, il che determinava il venir meno anche dei presupposti per il permanere del provvedimento di assegnazione.
Il motivo è infondato, avendo la sentenza gravata deciso conformemente alla giurisprudenza di questa Corte che ha appunto precisato che, in ragione della opponibilità al terzo ancorchè non trascritta - dell'assegnazione della casa familiare disposta in favore dell'altro coniuge in occasione della separazione, sia giudiziale che consensuale, o in sede di divorzio, la clausola della separazione consensuale istitutiva dell'impegno futuro di vendita dell'immobile adibito a casa coniugale, in quanto tale assegnata (in quella medesima sede) al coniuge affidatario del figlio minorenne, non è inscindibile rispetto alla pattuizione relativa all'assegnazione di detta abitazione, ma si configura come del tutto autonoma rispetto al regolamento concordato dai coniugi in ordine alla stessa assegnazione, riguardando un profilo compatibile con detta assegnazione in quanto sostanzialmente non lesivo della rispondenza di detta assegnazione all'interesse del figlio minorenne tutelato attraverso tale istituto (Cass. n. 24321/2007; conf. Cass. n. 16909/2015, a mente della quale la separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale - il consenso reciproco a vivere separati, l'affidamento dei figli, l'assegno di mantenimento ove ne ricorrano i presupposti - ed un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione, costituito da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all'instaurazione di un regime di vita separata, come nella specie vendita della casa familiare e attribuzione del ricavato a ciascun coniuge in proporzione al denaro investito nel bene stesso).
Inoltre, spunti a favore della validità dell'accordo e della non interferenza del patto in esame con l'eventuale provvedimento di assegnazione si traggono anche dalle argomentazioni svolte di recente da Cass. S.U. n. 18641/2022, che, nell'affermare il principio secondo cui l'attribuzione, in sede di divisione, dell'immobile adibito a casa familiare in proprietà esclusiva al coniuge che ne era già assegnatario, comporta la concentrazione, in capo a quest'ultimo, del diritto personale di godimento scaturito dall'assegnazione giudiziale e di quello dominicale sull'intero immobile, che permane privo di vincoli, il che configura una causa automatica di estinzione del primo (che, pertanto, non potrà avere alcuna incidenza sulla valutazione economica del bene in comunione a fini divisori, o sulla determinazione del conguaglio dovuto al coniuge comproprietario non assegnatario, dovendosi conferire all'immobile un valore economico pieno, corrispondente a quello venale di mercato), ha aggiunto che la circostanza che nell'immobile stesso continuino a vivere i figli minori, o non ancora autosufficienti, affidati al coniuge divenutone proprietario esclusivo, impone una rivalutazione della situazione nell'ambito dei complessivi e reciproci obblighi di mantenimento della prole, da regolamentare nella sede propria, anche con la eventuale modificazione dell'assegno di mantenimento.
6. Il quarto motivo del ricorso denuncia la violazione dell'art. 112 c.p.c. con la nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Si deduce che la ricorrente aveva proposto appello incidentale volto a far valere l'inopportunità della divisione, con richiesta di dilazione per un periodo di cinque anni ex art. 1111 c.c., nonchè la costituzione di un usufrutto sulla quota di proprietà dell'attore ai sensi dell'art. 194 c.c., comma 2.
Tali motivi non hanno però trovato alcuna risposta nella sentenza impugnata che è quindi evidentemente incorsa nella violazione della norma indicata in rubrica.
Il motivo è inammissibile.
Infatti, la sentenza impugnata è una sentenza non definitiva e la stessa, dopo avere risolto la questione in merito all'avveramento della condizione cui era subordinato il patto di vendita del bene comune, ha rimesso la causa in istruttoria per il prosieguo delle operazioni di valutazione e divisione, precisando altresì che era riservata la "decisione di ogni altra questione e la regolamentazione delle spese processuali al definitivo".
Rileva a tal fine il principio affermato da questa Corte secondo cui nell'ipotesi di impugnazione contro sentenza non definitiva, il giudice del gravame deve limitare il proprio esame alla materia che ha formato oggetto della decisione di primo grado e non può estenderlo alle questioni e ai profili della causa per i quali vi sia stata riserva di decisione (Cass. n. 24163/2013; Cass. n. 6517/2012; Cass. n. 5456/2003).
La riserva della decisione delle altre questioni esclude quindi che vi sia stata un'omissione di pronuncia suscettibile di essere denunciata in questa sede, e ciò in quanto i motivi devono investire solo le questioni per le quali vi sia stata statuizione, dovendosi altresì escludere che, in ragione del contenuto della pronuncia impugnata, vi sia stata una decisione, ancorchè implicita, sulle diverse questioni poste dai motivi di ricorso incidentale.
Il ricorso avverso la sentenza non definitiva è pertanto rigettato.
Ricorso avverso la sentenza definitiva 7. Il primo motivo di ricorso lamenta la violazione del principio del contraddittorio di cui all'art. 111 Cost., con violazione dell'art. 190 c.p.c., e conseguente nullità della sentenza.
Si deduce che la Corte d'Appello ha emesso la sentenza definitiva senza aver previamente invitato le parti a precisare le conclusioni e senza avere concesso i termini per gli scritti conclusionali.
Infatti, all'udienza del 23 novembre 2017, una volta scaduto il termine per il deposito della CTU, la ricorrente deduceva la nullità della consulenza per il mancato invio della bozza al proprio consulente e chiedeva concedersi un termine per formulare le proprie osservazioni, con possibilità per il CTU di potervi replicare.
Ma all'esito dell'udienza, il Collegio ha riservato la causa in decisione, senza assegnare i termini per il deposito di memorie conclusive ex art. 190 c.p.c..
Dopo circa sei mesi era stata poi pubblicata la sentenza e nella stessa si affermava che le parti avessero rinunciato ai termini, affermazione questa che però non trovava riscontro nella lettura del verbale di udienza del 23/11/2017.
Il vizio denunciato ha, quindi, determinato la nullità della sentenza.
Il motivo è inammissibile.
Innanzi tutto, come si ricava dalla lettura del verbale dell'udienza del 23/11/2017, si trattava di udienza fissata alla scadenza dei termini previsti per il deposito della CTU, adempimento questo effettivamente realizzatosi, così che, in assenza della necessità di espletamento di ulteriore attività istruttoria, trattavasi di udienza effettivamente destinata a raccogliere la precisazione delle conclusioni delle parti.
Emerge altresì che entrambi i difensori delle parti hanno preso parte alla stessa udienza, e che in particolare il difensore della ricorrente ebbe a formulare, oltre all'eccezione di nullità della CTU, la richiesta di sospensione del giudizio, il che denota come effettivamente furono rese delle conclusioni anche relative al merito della controversia.
Peraltro, dal verbale si ricava come il Collegio ebbe a riservarsi la causa in decisione, con l'annotazione di una successiva replica della difesa della ricorrente che, quindi, una volta avvedutasi della volontà della Corte di riservare la causa in decisione ben avrebbe potuto formulare in maniera compiuta le proprie conclusioni.
Va ribadito il principio secondo cui l'art. 360 c.p.c., n. 4, nel consentire la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela l'interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma garantisce solo l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato "error in procedendo, sicchè, ove il giudice non abbia invitato le parti alla precisazione delle conclusioni, la denuncia del mancato invito non può comportare la cassazione della sentenza impugnata qualora il ricorrente non deduca che il rinvio della causa per la discussione gli abbia impedito di modificare le conclusioni originarie, di proporre un'eccezione di merito o di rito, ovvero infine di articolare ulteriori mezzi di prova (Cass. n. 17905/2016).
E' stato altresì precisato che l'omissione dell'invito formale alla precisazione delle conclusioni integra una semplice irregolarità, che non invalida l'ulteriore fase del giudizio, poichè tale invito non è prescritto a pena di nullità e la sua mancanza non importa una lesione del principio del contraddittorio, non impedendo ai contendenti di precisare, ed Ric. 2017 n. 23590 sez. 52 - ud. 08-11-2022 -20- Numero registro generale 23590/2017 Numero sezionale 2234/2022 Numero di raccolta generale 34861/2022 Data pubblicazione 25/11/2022 eventualmente modificare, le rispettive conclusioni prima della spedizione della causa al collegio (Cass. n. 22618/2012).
Il motivo in esame può quindi, in parte qua, essere dichiarato inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., n. 2.
Quanto invece alla dedotta violazione consistente nella mancata assegnazione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c., la stessa ricorrente ricorda come la sentenza impugnata a pag. 3 riferisce che all'udienza del 23/11/2017 le parti avessero rinunciato alla concessione dei termini di legge.
Assume però il motivo che in realtà tale rinuncia non sarebbe mai stata formulata e che vi sarebbe solo un'omissione colpevole della Corte nella mancata assegnazione dei termini di legge per gli scritti conclusionali.
Trattasi però di deduzione che è volta a denunciare un errore di fatto revocatorio e che doveva essere veicolata nelle forme della revocazione di cui all'art. 395 c.p.c., n. 4.
Infatti, la sentenza impugnata ha reputato che non fossero state depositate le memorie e le comparse avendo le parti rinunciato ai relativi termini nell'udienza di precisazione delle conclusioni, mentre la ricorrente assume che tale rinuncia non vi sarebbe mai stata.
La sentenza gravata in parte qua sarebbe quindi affetta da un errore consistito nella supposizione di un fatto (rinuncia ai termini), la cui esistenza sarebbe invece, a detta della ricorrente, incontrastabilmente esclusa dagli atti di causa, e precisamente dalla lettura del relativo verbale di udienza.
Ne deriva che l'errore commesso non poteva essere denunciato tramite la proposizione del ricorso, ma andava invece censurato avvalendosi del rimedio della revocazione avverso la sentenza di appello.
Peraltro la censura è anche del tutto destituita di fondamento. Effettivamente questa Corte di recente, nella sua più autorevole composizione ha affermato che la parte che proponga l'impugnazione della sentenza d'appello deducendo la nullità della medesima per non aver avuto la possibilità di esporre le proprie difese conclusive ovvero di replicare alla comparsa conclusionale avversaria non ha alcun onere di indicare in concreto quali argomentazioni sarebbe stato necessario addurre in prospettiva di una diversa soluzione del merito della controversia; invero, la violazione determinata dall'avere il giudice deciso la controversia senza assegnare alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ovvero senza attendere la loro scadenza, comporta di per sè la nullità della sentenza per impedimento frapposto alla possibilità per i difensori delle parti di svolgere con completezza il diritto di difesa, in quanto la violazione del principio del contraddittorio, al quale il diritto di difesa si associa, non è riferibile solo all'atto introduttivo del giudizio, ma implica che il contraddittorio e la difesa si realizzino in piena effettività durante tutto lo svolgimento del processo. (Cass. S.U. n. 36596 del 25/11/2021).
Analogamente in passato è stato affermato che è nulla la sentenza che pronunci nel merito della causa senza che siano state precisate le conclusioni e assegnati i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie finali di replica, essendo in tal modo impedito ai difensori delle parti il pieno svolgimento del diritto di difesa, con conseguente violazione del principio del contraddittorio (Cass. n. 20732 del 13/08/2018; Cass. n. 18149 del 15/09/2016; Cass. n. 7760 del 05/04/2011; Cass. n. 4805 del 06/03/2006).
Trattasi però di precedenti nei quali la decisione era intervenuta in ogni caso prima della scadenza del termine di cui all'art. 190 c.p.c., che in ipotesi sarebbe spettato alla parte, ma che il giudice aveva omesso di concedere.
La soluzione si impone in maniera differente nel caso in cui, pur essendovi una formale omissione nell'assegnazione dei termini, ma senza che gli stessi siano stati altrettanto formalmente negati, la decisione del giudice avvenga in data successiva alla scadenza dei termini stessi, ove in ipotesi concessi.
A tal fine può farsi richiamo alla giurisprudenza di questa Corte che, in relazione al vecchio testo dell'art. 180 c.p.c., in tema di termine per la proposizione delle eccezioni non rilevabili d'ufficio, ha affermato che la mancata assegnazione al convenuto del termine, ex art. 180 c.p.c., comma 2, (nel testo, utilizzabile "ratione temporis", anteriore alla modifica operata dalla L. 14 maggio 2005, n. 80), per proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, non comporta la nullità "ipso jure" della sentenza qualora tra l'udienza di prima comparizione e quella di trattazione siano comunque intercorsi almeno i venti giorni richiesti dalla legge (Cass. n. 18583 del 03/09/2014; Cass. n. 12242 del 06/06/2011), e ciò in quanto il vizio del procedimento, consistente appunto nella mancata assegnazione al convenuto del termine di venti giorni di cui all'art. 180 c.p.c., comma 2, risulta sanato qualora tra l'udienza di prima comparizione e quella di trattazione siano intercorsi almeno i venti giorni richiesti dalla legge, così da restare escluso che le eccezioni ivi previste possano essere sollevate nella prima udienza di trattazione o, addirittura, in una udienza a questa successiva, dovendo esse invece essere proposte, al più tardi, nell'intervallo tra l'udienza di prima comparizione prevista dall'art. 180 c.p.c., e quella di trattazione di cui all'art. 183 del medesimo codice.
Tornando al caso in esame, è vero che la Corte d'appello ha riservato la causa in decisione senza formalmente assegnare i termini di cui all'art. 190 c.p.c., ma nemmeno vi è stata un'espressa negazione degli stessi.
Emerge poi che la sentenza gravata è stata deliberata nella camera di consiglio del 28 marzo 2018, per essere poi pubblicata in data 16/5/2018, e quindi, come specificato da Cass. S.U. n. 36596/2021, è alla prima data che occorre far riferimento per verificare se la decisione sia stata adottata senza il rispetto dei termini di cui all'art. 190 c.p.c., verifica questa che nella fattispecie consente di affermare come la deliberazione sia stata presa in data successiva alla scadenza dei termini di cui all'art. 190 c.p.c., fatti decorrere dalla udienza di precisazione delle conclusioni (per una vicenda in parte analoga a quella in esame, si veda Cass. n. 22413/2004).
Può quindi ritenersi che, anche a voler accedere alla tesi difensiva della ricorrente, pur in assenza di un'espressa rinuncia alla concessione dei termini, a fronte del silenzio serbato sul punto dalla Corte d'Appello, la parte avrebbe potuto fare affidamento sul termine di legge dettato dall'art. 190 c.p.c., e quindi avrebbe potuto in ogni caso provvedere autonomamente al deposito degli scritti conclusionali.
L'omissione della parte unitamente al rilievo per cui la sentenza è stata deliberata in data successiva alla scadenza dei termini per il deposito degli scritti conclusionali, induce a ritenere che la violazione dedotta sia a sua volta manifestamente infondata non avendo la parte adeguatamente dimostrato l'effettivo pregiudizio derivante dalla violazione asseritamente commessa dalla Corte d'Appello (cfr. Cass. n. 22341/2017; Cass. n. 26087/2019).
8. Il secondo motivo del ricorso avverso la sentenza definitiva denuncia la violazione del principio del contraddittorio di cui all'art. 111 Cost., e del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., con violazione dell'art. 195 c.p.c., e nullità della sentenza.
Lamenta la ricorrente che la Corte distrettuale non avrebbe rilevato la pur eccepita nullità della CTU, che è stata depositata senza che l'ausiliario d'ufficio avesse comunicato alla ricorrente la bozza di consulenza, impedendole quindi di poter svolgere le proprie controdeduzioni.
Tale eccezione è stata puntualmente sollevata all'udienza del 23 novembre 2017, e cioè alla prima udienza successiva al deposito della relazione, lamentandosi che non fosse stata rispettata la prescrizione della Corte che aveva imposto la trasmissione della relazioni anche ai consulenti di parte entro la data del 31 luglio 2017.
La sentenza impugnata ha disatteso la contestazione rilevando che il CTU era stato onerato di effettuare la comunicazione alle parti - e per queste, ai rispettivi difensori - e non anche direttamente ai consulenti di parte, ma trattasi di affermazione che non tiene conto del fatto che in realtà la relazione non è stata comunicata nemmeno ai difensori della A.A..
Il motivo è manifestamente infondato.
Come si ricava dalla lettura della CTU, l'ausiliario d'ufficio riferisce a pag. 5 di avere provveduto, nel termine assegnato a trasmettere nei termini la bozza dell'elaborato peritale, e dall'elenco degli allegati alla CTU, inserita nella produzione della stessa ricorrente, vi è una sezione specificamente dedicata alle comunicazioni effettuate alle parti dal CTU (sezione che però non risulta riprodotta tra le parti fotocopiate dell'elaborato peritale). Tuttavia, dalla documentazione allegata alla produzione del controricorrente, puntualmente richiamata nell'indice riprodotto in controricorso, risulta che effettivamente con messaggio pec del 31 luglio 2017 è stata trasmessa la bozza della relazione (unitamente ad altri allegati) all'indirizzo sia dell'avv. Varricchio, difensore della A.A., sia del geom. De Stefanis, CTP designato dall'appellante incidentale.
Peraltro, trattasi del medesimo indirizzo al quale risultano inoltrati i precedenti messaggi del CTU, concernenti lo sviluppo e lo svolgimento delle operazioni peritali, ed in relazione ai quali non risulta essere stata sollevata alcuna eccezione quanto alla inidoneità a fungere da valido strumento comunicativo.
Inoltre, si tratta dello stesso indirizzo dal quale l'avv. Varricchio ha comunicato con precedente mail del 25 luglio 2017, l'impossibilità di procedere ad un nuovo accesso nell'immobile oggetto di causa, e che risulta indirizzato per il geom. De Stefanis, proprio all'indirizzo di cui si è servito il CTU nella comunicazione di invio della relazione del 31 luglio 2017.
A prescindere quindi dalla correttezza del richiamo al principio sostenuto dalla Corte d'Appello, secondo cui la violazione dell'obbligo di comunicazione al consulente tecnico di parte, delle indagini predisposte dal consulente d'ufficio (art. 91 disp. att. c.p.c., comma 2) non produce nullità della consulenza di quest'ultimo, ove il consulente della parte interessata avrebbe potuto essere informato di tali operazioni dal difensore della medesima (Cass. n. 2834/1983; Cass. n. 2594/1980; Cass. n. 1079/1977; Cass. n. 4808/2014), risulta invece dimostrato che la relazione è stata inviata a mezzo pec non solo al difensore della parte, ma altresì al suo consulente, il che determina il rigetto del motivo e conseguentemente il rigetto anche del ricorso avverso la sentenza definitiva.
9. Poichè i ricorsi sono rigettati, le spese seguono la soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.
10. Poichè entrambi i ricorsi sono rigettati, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l'art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell'obbligo di versamento, da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per le stesse impugnazioni.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi proposti avverso la sentenza non definitiva ed avverso la sentenza definitiva e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore del controricorrente, che liquida in complessivi Euro 8.400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per entrambi i ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 8 novembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2022
29-11-2022 21:41
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