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Sentenza

Coniuge separato agisce in giudizio contro la moglie per la restituzione delle somme da lui spese per le opere di manutenzione, per le addizioni e le migliorie fatte sulla casa adibita a residenza familiare di proprietà esclusiva della moglie.
Coniuge separato agisce in giudizio contro la moglie per la restituzione delle somme da lui spese per le opere di manutenzione, per le addizioni e le migliorie fatte sulla casa adibita a residenza familiare di proprietà esclusiva della moglie.
Corte di Cassazione, sez I Civile, sentenza 5 febbraio – 27 maggio 2015, n. 10942
Presidente Di Amato – Relatore Cristiano

Svolgimento del processo

La Corte d'appello di Milano, con sentenza del 28.8.012, ha respinto l'appello proposto da S.E. contro la sentenza del Tribunale di Monza che, pronunciando nella causa di scioglimento della comunione legale promossa nei suoi confronti dalla moglie M.M.T. , da cui era legalmente separato, lo aveva condannato alla restituzione, ai sensi degli artt. 184 III comma e 186 c.c., della metà della somma ricavata dal disinvestimento di titoli depositati su un conto, a lui intestato, collegato al conto corrente di cui entrambi i coniugi erano titolari ed aveva dichiarato inammissibili, perché tardivamente introdotte, o respinto nel merito le domande da lui avanzate in via riconvenzionale.
Per ciò che ancora interessa nella presente sede, la corte territoriale: ha rilevato che S. aveva riconosciuto la fondatezza delle pretese creditorie della moglie nel corso dell'interrogatorio libero reso nella causa di separazione giudiziale; ha ribadito la tardività della domanda riconvenzionale volta ad ottenere la restituzione della quota di TFR maturata anteriormente al matrimonio ed ha dichiarato parimenti tardiva e inammissibile la domanda di accertamento dell'appartenenza alla comunione de residuo dei frutti dei beni personali dell'attrice/appellata percepiti e non consumati; ha accertato che le somme depositate sui conti intestati alla sola M. provenivano esclusivamente da donazioni e dalla successione della madre della signora, ed erano pertanto da considerare beni personali non caduti in comunione; ha infine ritenuto che le spese sopportate da S. per apportare migliorie alla casa familiare, di esclusiva proprietà della moglie, fossero da collegarsi ai bisogni della famiglia.
La sentenza è stata impugnata da S.E. con ricorso per cassazione affidato a 14 motivi ed illustrato da memoria, cui M.M.L. ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1) Con i primi quattro motivi del ricorso S.E. si duole della condanna al pagamento della metà del controvalore dei titoli.
1.1) Lamenta in primo luogo, sotto il profilo del vizio di motivazione, che il giudice d'appello abbia ritenuto sufficiente all'accoglimento della pretesa creditoria della moglie il fatto che, alcuni anni prima, nel corso dell'interrogatorio libero reso in sede di giudizio di separazione, egli avesse dichiarato che i titoli erano depositati su un conto che, benché esclusivamente a lui intestato, era in comunione con la moglie ed avrebbe dovuto formare oggetto di divisione, e non si sia curato di valutare la fondatezza delle sue difese, volte a dimostrare che le somme ricavate dal disinvestimento dei titoli ricadevano nella comunione de residuo e, comunque, erano state da lui impiegate, in massima parte, per far fronte ai bisogni della famiglia e non già a sue esigenze personali.
1.2) Sostiene, inoltre, che la corte milanese avrebbe erroneamente attribuito valore confessorio alle sue dichiarazioni, in violazione degli artt. 2730 c.c. e 228 e segg. c.p.c., ed, altrettanto erroneamente, avrebbe implicitamente recepito la tesi del tribunale - che aveva escluso che si versasse in fattispecie disciplinata dalla lettera b) del I comma dell'art. 177 c.c. e lo aveva ritenuto obbligato al pagamento ai sensi degli artt. 184 III comma e 186 c.c. - nonostante fosse pacifico che il conto corrente ordinario era alimentato esclusivamente dai proventi della sua attività lavorativa e che gli investimenti in titoli venivano effettuati solo con somme prelevate da tale conto, sul quale tornavano poi ad essere accreditate anche le liquidità provenienti dai disinvestimenti.
1.3) Assume, infine, che la corte del merito avrebbe omesso di valutare sia la copiosa mole di documenti da lui prodotti per provare di aver impiegato il ricavato dalla vendita dei titoli per necessità della famiglia, sia l'esito del suo interrogatorio formale, nel corso del quale aveva analiticamente dato conto delle spese effettuate, e non avrebbe neppure preso in considerazioni le ulteriori sue richieste istruttorie.
2) I motivi, che essendo fra loro connessi possono essere congiuntamente esaminati, non meritano accoglimento.
2.1) Le censure muovono, in effetti, da un' esatta premessa, in quanto la corte territoriale ha attribuito alle dichiarazioni rese da S. nel corso del giudizio di separazione (così riportate in sentenza, per la parte di interesse: "... si tratta di un conto titoli in comunione tra me e mia moglie che dobbiamo dividere.."), valenza ricognitiva non già del solo fatto posto a fondamento dell'avversa pretesa e da questi effettivamente ammesso, ma anche dell'insussistenza del fatto impeditivo di tale pretesa (l'utilizzo per necessità della famiglia delle somme ricavate dal disinvestimento) che l'(allora) appellante aveva allegato nel giudizio di divisione.
Ciò non toglie che, non essendo controverso il fatto costitutivo del diritto della M. , incombesse a S. di fornire la prova di quello impeditivo.
Ne consegue che, al di là dell'errato percorso logico-giuridico che ha condotto il giudice a quo a ritenere che le dichiarazioni rese da S. nel giudizio di separazione costituissero riconoscimento (o, se si preferisce, che avessero portata confessoria) dell'esistenza del diritto della controparte e, perciò, ad escludere non già che la prova da lui dovuta fosse stata raggiunta, ma che potesse trovare ingresso in causa, il ricorrente era tenuto ad illustrare compiutamente le ragioni dell'ingiustizia della decisione, siccome assunta nonostante le risultanze istruttorie dimostrassero che egli aveva speso le somme in questione per far fronte ad esigenze della famiglia.
Le doglianze prospettate da S. in relazione al punto controverso risultano però inammissibili, in quanto non rispondono al requisito di specificità richiesto dall'art. 366 I comma n. 4 c.p.c..
Il ricorrente si è infatti limitato ad elencare una serie di documenti di spesa ed a riportare integralmente il contenuto dell'interrogatorio formale, lamentando l'omesso esame degli uni e dell'altro da parte della corte territoriale, ma (oltre a non aver considerato che l'interrogatorio formale non può conferire valenza confessoria - o comunque di prova legale - ai fatti a sé favorevoli riferiti dalla parte) non ne ha chiarito la decisività, non avendo neppure fatto cenno ai dati che dimostrerebbero che le spese che ha documentato, o riferito di aver sostenuto nel corso della prova orale, sono state effettuate grazie al prelievo delle somme disinvestite. Identica conclusione va assunta con riguardo a quella parte della censura che lamenta il mancato accoglimento dell'istanza di esibizione di documenti bancari di cui non è indicata la rilevanza probatoria, nonché della richiesta di ammissione di una ctu contabile di chiara natura esplorativa "volta ad accertare l'esatto ammontare dei prelievi e dei versamenti effettuati dai coniugi dal 2003 ad oggi”.
2.2) Inammissibile è anche la censura in cui è dedotta violazione degli artt. 177, I comma lettera a) e c), 184 III comma e 186 c.c., atteso che la corte territoriale non ha affrontato la questione di diritto concernente l'appartenenza dei diritti di credito incorporati dai titoli e delle somme ricavate dal loro disinvestimento alla c.d. comunione immediata od a quella de residuo e che pertanto il ricorrente avrebbe dovuto denunciare sul punto un error in procedendo, per omessa pronuncia sul relativo motivo d'appello.
Peraltro, anche a voler ritenere che il giudice a quo abbia implicitamente affermato che la questione era superata, avendo S. riconosciuto che il conto titoli ricadeva in comunione, la ragione di doglianza in esame risulterebbe ugualmente inammissibile, sia perché fondata su un presupposto di fatto (l'alimentazione del conto corrente ordinario con somme provenienti in via esclusiva dall'attività separata del ricorrente) che non emerge dalla lettura della sentenza impugnata né può ricavarsi dall'esame di specifici atti o documenti di causa (cui il ricorso neppure accenna) e che pertanto, ancorché definita "pacifica", risulta del tutto indimostrata, sia perché diretta a prospettare per la prima volta nella presente sede di legittimità la riconducibilità della fattispecie al disposto della lettera c) (anziché b) del I comma dell'art. 177 c.c..
3) Con il quinto motivo S. contesta di aver tardivamente avanzato la domanda riconvenzionale volta ad ottenere la condanna della moglie alla restituzione della quota parte del suo TFR maturata prima del matrimonio. Osserva che, poiché nella comparsa di costituzione e risposta egli aveva espressamente dedotto che sul c/c cointestato era confluita anche la predetta porzione di TFR ed aveva concluso chiedendo di "dividere al 50% il patrimonio oggetto di comunione legate" (e perciò, implicitamente, di escludere dalla divisione i beni personali), la domanda, ancorché precisata nel quantum solo al verbale dell'ultima udienza istruttoria, avrebbe dovuto ritenersi contenuta nell'originario petitum ed avrebbe pertanto dovuto essere esaminata; rileva, in ogni caso, che pur a ritenere la domanda nuova, la questione concernente l'esclusione dalla comunione della parte di TFR maturato prima del matrimonio avrebbe dovuto essere esaminata quantomeno quale eccezione difensiva, volta a paralizzare l'avversa pretesa.
3.1) Il motivo è palesemente infondato, dovendosi escludere che una domanda di condanna alla restituzione di somme che non ricadono in comunione (o un'eccezione riconvenzionale di compensazione di tali somme con quelle spettanti alla controparte) possa essere implicitamente contenuta in una domanda di mero accertamento della consistenza del patrimonio comune da dividere.
Non appare superfluo aggiungere che l'allegazione dell'avvenuto versamento sul conto corrente cointestato dell'importo riscosso da S. a titolo di TFR era circostanza che di per sé lasciava presumere che l'intera somma fosse stata da questi volontariamente conferita in comunione (e fosse, dunque, per la parte che eventualmente ancora ne residuava, soggetta alla disciplina di cui all'art. 177 I comma lettera c) c.c.; ne consegue che, in difetto di illustrazione da parte del ricorrente delle ragioni di diritto che conducevano ad escludere tale effetto, il giudice del merito non avrebbe potuto ritenere implicitamente proposta neppure una domanda di accertamento (negativo) di non appartenenza della predetta porzione al patrimonio comune da dividere.
5) Con i successivi tre motivi di ricorso S. lamenta il rigetto della domanda riconvenzionale di divisione delle somme e dei titoli presenti sui conti correnti intestati alla M. e di restituzione della metà degli importi dagli stessi prelevati.
5.1) Rileva, denunciando sul punto vizio di motivazione della sentenza impugnata, che la corte del merito ha respinto la domanda limitandosi a richiamare la prospettazione difensiva della M. , secondo cui le somme ed t titoli depositati originavano da donazioni e/o dalla successione materna, apertasi nel 1999.
5.2) Deduce, inoltre, violazione dell'art. 195 c.c. in relazione all'art. 2697 c.c., atteso che la moglie non avrebbe fornito prove idonee a vincere la presunzione di appartenenza alla comunione di tutti i beni mobili che risultavano nella sua disponibilità.
5.3) Contesta, infine, di aver riconosciuto, in sede di giudizio di separazione, che sui conti intestati alla moglie fossero depositate somme e titoli dalla stessa ereditati e lamenta il rigetto dell'istanza di acquisizione dei documenti bancari relativi a tali conti, da lui formulata ai sensi dell'art. 210 c.p.c..
Anche queste censure, in parte inammissibili e in parte infondate, devono essere respinte.
6-1) Come emerge dalla lettura del motivo d'appello (riportato pressoché integralmente in ricorso) riguardante lo specifico tema in esame, l'accertamento del tribunale secondo cui S. aveva riconosciuto che le somme depositate sui conti intestati (o cointestati) alla M. provenivano da donazioni e/o da eredità non era stato impugnato dall'odierno ricorrente e risultava pertanto coperto da giudicato interno.
Tanto bastava - come correttamente rilevato dalla corte territoriale - ad escludere che rientrassero in comunione non solo i titoli e le somme ereditate (ari 179 lettera b) c.c.) ma anche i beni acquisiti attraverso l'investimento di quelli ereditari (art. 179 lettera f) c.c.), che non potevano ritenersi presuntivamente caduti in comunione solo perché, all'atto dell'acquisto, la M. non ne aveva dichiarato espressamente la provenienza: infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, cui il collegio intende dare continuità, la dichiarazione di cui è onerato il coniuge acquirente ai sensi della norma appena citata è necessaria solo quando possano sorgere dubbi circa la natura personale del bene impiegato per l'acquisto, ivi compreso il denaro (Cass. nn. 10855/010, 24061/08), mentre nel caso di specie la circostanza era incontroversa.
7) Con il nono motivo il ricorrente denuncia error in procedendo per violazione degli artt. 112, 163, 164, 183 comma 6, 189, 329 comma 2 c.p.c., in relazione al capo della sentenza impugnata che ha dichiarato tardivamente proposta, e perciò inammissibile, la domanda di divisione dei frutti dei beni personali della M. da lui avanzata in via riconvenzionale.
Sostiene, in primo luogo, che la domanda doveva ritenersi necessariamente compresa in quella precisata nella comparsa di risposta, di accertamento dell'appartenenza al patrimonio comune dei conti intestati esclusivamente all'attrice e di divisione al 50% dello stesso; rileva, in ogni caso, che poiché il giudice di primo grado aveva pronunciato su tale domanda, respingendola nel merito, senza che la controparte avesse proposto appello incidentale condizionato volto a farne valere l'inammissibilità, la questione era coperta da giudicato e non poteva essere rilevata d'ufficio dal giudice d'appello.
7.1) Il motivo è nella sua prima parte inammissibile, in quanto si risolve nella mera pretesa di ottenere una diversa interpretazione della domanda tempestivamente formulata in primo grado, non accompagnata dall'illustrazione dei vizi logici o giuridici della motivazione in base alla quale la corte territoriale ha escluso, con dovizia di argomentazioni, che essa potesse ritenersi comprensiva della richiesta di divisione dei frutti dei beni personali percepiti e non consumati alla data dello scioglimento della comunione.
7.2) Nella sua seconda parte il motivo è invece infondato.
L'esame in sede di impugnazione di questioni pregiudiziali o preliminari rilevabili d'ufficio (quale è quella concernente l'inammissibilità della domanda proposta per la prima volta nella comparsa conclusionale di primo grado) resta precluso per effetto del giudicato interno formatosi sulla pronuncia che abbia esplicitamente risolto tali questioni, ovvero sulla pronuncia che, nel provvedere su alcuni capi della domanda, abbia implicitamente statuito sulla stessa; ne consegue che la preclusione non si verifica quando il capo della sentenza comportante, con una decisione di merito, la definizione implicita di questioni pregiudiziali o preliminari sia investito, come nella specie, dall'impugnazione, ancorché limitatamente alla detta pronuncia di merito (Cass. nn. 11318/05, 8204/04,1960/03).
7.3) I due successivi motivi del ricorso, con i quali S. ripropone nella presente sede le ragioni di impugnazione della statuizione di rigetto assunta nel merito dal tribunale, vanno dichiarati inammissibili.
8) Il dodicesimo motivo investe il capo della sentenza che ha respinto la domanda riconvenzionale svolta da S. per ottenere la restituzione delle somme spese per opere di manutenzione, addizioni e migliorie della casa adibita a residenza familiare, di proprietà esclusiva della M. .
8.1) Il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 1150 e 2041 c.c., contesta che tutte le opere potessero ritenersi rispondenti a bisogni della famiglia per il solo fatto di essere state eseguite nell'immobile dove questa abitava e che, comunque, non potesse effettuarsene una valutazione in termini di miglioramenti suscettibili di incrementare il valore del bene, da verificarsi al momento del suo ritorno nella disponibilità esclusiva del titolare. Rileva che, escludendo il diritto del coniuge non proprietario ad ottenere un'indennità in relazione alle opere eseguite a proprie spese, si finirebbe col giustificare un indebito arricchimento in danno di questi ed a favore dell'altro coniuge. Lamenta, inoltre, che la corte d'appello, sulla base di tale errato presupposto di diritto, abbia accomunato in unicum indistinto tutte le opere dedotte, senza riconoscere che alcune di esse - quali ad es. gli interventi edilizi che hanno consentito di ricavare una sola unità abitativa dai due appartamenti contigui esistenti in origine, il rifacimento degli impianti di riscaldamento e di impermeabilizzazione, la sostituzione dei pavimenti ecc. - avevano sicuramente incrementato il valore dell'immobile. Sostiene, infine, che anche se le opere fossero state eseguite con denaro comune, la domanda di rimborso avrebbe dovuto essere accolta nella misura del 50%.
8.2) Il motivo deve essere respinto.
La corte territoriale non ha mai affermato che al coniuge non proprietario non competa alcuna indennità, ai sensi dell'art. 1150 c.c., per le migliorie apportate all'abitazione familiare di proprietà esclusiva dell'altro, ma si è limitata ad evidenziare le ragioni di fatto per le quali, in concreto, la domanda non poteva trovare accoglimento, rilevando come, dalla stessa elencazione dei lavori contenuta negli scritti difensivi di S. , le opere di cui questi chiedeva l'integrale rimborso fossero in realtà finalizzate a rendere più confacente alle esigenze della famiglia l'abitazione messa a disposizione dalla sola M. ed utilizzata per oltre un trentennio come casa comune e dovessero pertanto ritenersi eseguite per il soddisfacimento di bisogni familiari.
Tale accertamento, di per sé idoneo a sorreggere il capo della decisione impugnato, risulta contestato in via del tutto generica dal ricorrente, che si è limitato ad affermare che alcune delle opere eseguite avevano "sicuramente" incrementato il valore dell'immobile, omettendo, per un verso, di considerare che, qualora l'effettuazione della spesa sia avvenuta in adempimento dell'obbligo di contribuzione di cui all'art. 143 c.c. non sussiste il diritto al rimborso (Cass. n. 18749/04), e, per l'altro, di specificare quali elementi istruttori (erroneamente non considerati in sentenza) valevano a smentire la conclusione cui è pervenuto il giudice d'appello.
9) Sono inammissibili assorbiti gli ultimi due motivi di ricorso, che investono le ulteriori argomentazioni con le quali la corte d'appello ha, ad abundantiam, escluso che le opere, eseguite fra il 1970/80, potessero ancora ritenersi accrescitive del valore dell'immobile alla data di scioglimento della comunione (2006) ed aderito all'accertamento del tribunale concernente la mancanza di prova della provenienza delle somme spese per il rifacimento della casa dal patrimonio personale del ricorrente. In conclusione, il ricorso deve essere integralmente rigettato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese La processuali, che liquida in Euro 6.500, oltre rimborso forfetario e accessori di legge. Dispone che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati.
Avv. Antonino Sugamele

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