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Sentenza

Detenuta madre in custodia cautelare in carcere: la norma in favore delle detenute madri con figli di eta' inferiore a 6 anni entrera' in vigore nel 2014
Detenuta madre in custodia cautelare in carcere: la norma in favore delle detenute madri con figli di eta' inferiore a 6 anni entrera' in vigore nel 2014
Corte di Cassazione Sez. Seconda Pen. - Sent. del 28.03.2012, n. 11714

 

Osserva

Con ordinanza del 21 ottobre 2011, il Tribunale di Napoli ha respinto gli appelli proposti nell'interesse di R.P. attualmente sottoposta alla misura della custodia cautelare in carcere, avverso le ordinanze pronunciate il 25 maggio 2011 e 14 luglio 2011 dalla Corte di appello di Napoli, con le quali erano state respinte le istanze di revoca o di sostituzione della misura custodiale in corso di applicazione. Con il primo appello, in particolare, si faceva leva sul fatto che l'imputata era stata a lungo detenuta ed era madre di prole in tenera età, sicché il quadro delle esigenze cautelari doveva ritenersi del tutto o grandemente scemato. Il secondo appello si fondava, invece, sull'art. 1 della legge n. 62 del 2011, il quale prevede misure di tutela in favore delle detenute madri di figli di età inferiore a sei anni, nonché in considerazione della buona condotta carceraria, oltreché deIl ‘epoca risalente dei fatti. Al riguardo, il giudice dell' appello de libertate osservava, innanzi tutto, come non potesse nella specie venire in discorso la sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2011, in quanto l'imputata era stata condannata in appello alla pena di quattordici anni di reclusione per i reati di cui agli artt. 73 e 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, ma aggravati a norma dell'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, cosicché il regime più rigoroso di quello ordinario doveva ritenersi compatibile, alla luce delle decisioni della stessa Consulta e della Corte europea dei diritti dell'uomo. Non potrebbe neppure trovare applicazione il nuovo testo dell'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., per come novellato dall'art. 1 della legge 21 aprile 2011 n. 62 (la donna è madre di un bambino che ha compiuto quattro anni e, quindi, è di età superiore al limite attualmente previsto dalla norma vigente, ma inferiore alla norma per come novellata), in quanto la nuova disposizione entrerà in vigore a decorrere dalla attuazione del piano straordinario penitenziario e comunque dal 1 gennaio 2014. Le restanti deduzioni della appellante dovevano, infine, ritenersi non fondate e comunque incongrue al fine di superare la presunzione relativa derivante dall'art. 275 cod. proc. pen. Propone ricorso per cassazione il difensore dell'imputata il quale deduce violazione di legge e vizio di motivazione. Reputa infatti il ricorrente errata la interpretazione data dai giudici a quibus circa la entrata in vigore della nuova disciplina, giacché la parte di essa cui si correla il differimento della entrata in vigore è soltanto quella relativa alla applicazione del nuovo art. 285-bis cod. proc. pen., che presuppone la disponibilità degli istituti a custodia attenuata. La modifica introdotta all'art. 275, comma 4, cod. proc. pen. invece, costituendo norma processuale più favorevole, deve ritenersi entrata in vigore dopo la normale vacatio legis di quindici giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (n. 103 del 5 maggio 2011). Il Tribunale avrebbe dovuto dunque riscontrare la sussistenza, nel caso di specie, di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza - come previste dalla norma di riferimento - mentre invece si è limitato a riferire della condanna subita dall'imputata in grado di appello. Inoltre, il provvedimento impugnato non avrebbe offerto neppure congrua motivazione in ordine agli elementi offerti dalla difesa circa il venir meno delle esigenze cautelari, sottolineandosi al riguardo che l'imputata era stata destinataria della misura carceraria - in sostituzione di quella domiciliare - in modo automatico a seguito della condanna in secondo grado e, dunque, senza che fossero state individuate esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Sarebbe infine apodittica la ritenuta compatibilità dello stato di salute dell'imputata e del figlio con lo stato di detenzione e sarebbero comunque venute meno le esigenze di cautela. Le doglianze relative alla mancata applicazione della nuova disciplina introdotta dall'art. 1 della legge n. 62 del 2001 non sono fondate. Ai fini della disamina della questioni che il ricorso propone, assumono tuttavia rilievo preliminare due quesiti: da un lato, occorre infatti verificare se, avuto riguardo al titolo dei reati contestati all' imputata ed in relazione ai quali è intervenuta condanna in grado di appello - la quale, va rammentato, ha costituito la causa giustificatrice della applicazione della misura carceraria - trovi o meno applicazione il paradigma “attenuato” della presunzione di adeguatezza della custodia carceraria, introdotto per il reato di cui all'art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, dalla sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2011. Dall' altro lato, occorrerà verificare se, nei confronti dei soggetti di cui all'art. 275, comma 4 cod. proc. pen., trovi o meno applicazione il regime disfavore per essi previsto in tema di valutazione delle esigenze che legittimano la custodia in carcere, anche nelle ipotesi in cui si proceda per i reati di cui al precedente comma 3 del medesimo art. 275 cod. proc. pen. All'esito di tale preliminare verifica, occorrerà, infine, procedere ad accertare se le nuove disposizioni introdotte in tema di custodia cautelare per le detenute madri dall'art.1 della legge 21 aprile 2011, n. 62 (Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori), trovino o meno immediata applicazione o presentino comunque riflessi per ciò che attiene allo status custodiae cui l'imputata è attualmente sottoposta. Quanto al primo degli indicati quesiti, va rammentato che, come sottolineato dal giudice a quo, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 231 del 2011, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di cui all'art. 74 del testo unico sugli stupefacenti (reato per il quale, appunto, l'imputata è stata condannata) è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Rievocando i divieti posti a base di precedenti analoghe decisioni concernenti la stessa norma, la Corte ha - come è noto - ribadito il principio secondo il quale le presunzioni assolute, specie se raccordate a limitazioni dei diritti fondamentali della persona, contrastano con il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali; evenienza, questa, che ricorre ove le stesse non risultino rispondenti a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell' id quod plerumque accidit. In particolare - soggiunse la Corte - «l'irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa». Il che era, appunto, quanto era dato riscontrare in tema di associazioni finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti, ove accanto a vaste ed agguerrite organizzazioni, si poteva dare il caso di piccoli gruppi, talora a ristretto ambito familiare, operanti in un'area limitata e con i più semplici e modesti mezzi. Ben diverso, ed anzi antitetico, è l'approdo cui è da tempo pervenuta la giurisprudenza costituzionale in tema di reati di stampo mafioso, ove si è invece ritenuta del tutto ragionevole la presunzione di adeguatezza sancita in materia dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., avuto riguardo a quello che è stato definito come il «coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere è connaturato». D'altra parte, si è pure osservato, sono proprio le peculiarità che caratterizzano i sodalizi di stampo mafioso a fornire una adeguata “base statistica” alla presunzione che viene qui in discorso, rendendo dunque ragionevole l'opinione per la quale, nella generalità dei casi, «le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria, in quanto idonea - per valersi delle parole della Corte europea dei diritti delI'uomo - a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine”, minimizzando “il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti” (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia)» (v. al riguardo, le ordinanze n. 450 del 1995, n. 130 del 2003 e n. 40 del 2002, nonché le sentenze n. 265 del 2010, n. 164 del2011 e, da ultimo, la citata sentenza n. 231 del 2011). In tale quadro di riferimento, dunque, la ratio in funzione della quale la Corte costituzionale ha nuovamente “inciso” sulla presunzione di adeguatezza di cui al comma 3 dell'art. 274 in tema di violazione dell'art. 74 del testo unico degli stupefacenti, non può trovare applicazione nel caso di specie, in quanto la contestata e ritenuta aggravante di cui all' art. 7 del d.l. n. 52 del 1991, rende il reato attratto nella sfera della criminalità mafiosa, l'ambito della quale giustifica - come si è visto - il mantenimento di quella presunzione assoluta, radicata sul dato di comune esperienza per il quale l'essersi avvalsi di metodi propri di una associazione di stampo mafioso impone - in presenza di esigenze cautelari - di ritenere la custodia carceraria come unica misura adeguata ad elidere le contaminazioni derivanti dalla “forza” di assoggettamento che la realtà mafiosa è in grado di determinare sul territorio. A proposito, poi, del quesito, anch'esso preliminare, se le particolari condizioni personali menzionate nel comma 4 dell'art. 275 cod. proc. pen., prevalgano comunque rispetto alla presunzione di adeguatezza di cui al comma 3 del medesimo articolo, con la conseguenza di rendere necessarie esigenze cautelari di eccezionale rilevanza per disporre la custodia carceraria, a prescindere dal titolo di reato per il quale si procede, questo Collegio ritiene di aderire alla giurisprudenza di questa Corte che ha già dato risposta affermativa al quesito stesso. Le disposizioni del comma 4 e seguenti della nrma in esame, infatti, individuano tutte una serie di categorie di “soggetti deboli,” le quali, proprio a cagione delle specifiche condizioni in cui versano, evocano esigenze - terapeutiche o di altro genere - che impongono, da un lato, l'approntamento di strutture lato sensu alternative alla custodia intramuraria, e, dall ‘altro e per converso, una sorta di presunzione inversa a quella di cui all ‘art. 275, comma 3, radicata sulla presupposizione di un “naturale” affievolimento delle esigenze cautelari, giustificato proprio dalle specifiche condizioni in cui tali soggetti versano. Il tratto unificante di tali situazioni è, dunque, chiaramente riconducibile alla tutela di valori coessenziali alla salvaguardia della persona, ed alla correlativa esigenza di impedire che la stessa custodia carceraria possa atteggiarsi (paradossalmente) quale strumento contrario alle esigenze di “umanizzazione”, che la stessa esecuzione penale è chiamata a rispettare per dettato costituzionale. Deve dunque condividersi l'assunto secondo il quale la presunzione di cui all'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., che esclude l'applicabilità della custodia cautelare nei confronti di determinate persone che versino in particolari condizioni. salvo che ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, prevale su quella di cui al comma 3 dello stesso articolo per il quale la custodia cautelare è invece imposta se sussistono esigenze di cautela ove si proceda per determinati reati. Ciò, si è detto, in quanto la presunzione di cui al comma 4, in bonam partem, per la sua specificità prevale su quella contraria, in malam partem, prevista dal comma 3 (cfr., fra le altre, Cass.,Sez. VI, n. 3415 del 21 ottobre 1999, Avaro; Cass., Sez. I, n. 1438 del 27 novembre 2008). Si è peraltro anche osservato al riguardo, che più che di presunzioni che si contrappongono, la prevalenza della disciplina di favore dettata dal comma 4 trova fondamento nel giudizio di valore operato dal legislatore, nel senso che sulla esigenza processuale e sociale della coercizione intramuraria debba prevalere la tutela di altri interessi, considerati poziori in quanto correlati ai fondamentali diritti della persona umana stabiliti dall'art. 2 della Costituzione, tutti espressi nelle peculiari situazioni cui tale disciplina di riferisce (v. ad es., Cass., Sez. I, n. 5840 del 16 gennaio 2008, C onigli aro ). Prospettiva, questa, che, per quel che si è detto, appare senz'altro condivisibile, giacché essa finisce per assegnare a quei valori il necessario risalto anche sul piano dei rimedi processuali, portando ad emersione la quantità e qualità delle esigenze cautelari, a fronte della valutazione del titolo di reato che è - sul piano cautelare - categoria astratta e, per molti aspetti, nominalistica. Dunque, ove si ritenesse nel caso di specie applicabile la disciplina prevista dal comma 4 dell'art. 275 cod. proc. ren., non potrebbe valere, in senso ostativo, il regime di rigore previsto dal comma 3 dello stesso articolo, con ovvi riflessi in ordine all'an ed al quomodo della misura in concreto applicabile nei confronti dell'imputata. Considerato, dunque, che l'imputata è madre di un bambino che ha superato i tre anni di età - limite previsto per l'applicabilità della disciplina stabilita dall'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., “vecchio”testo - ma è di età inferiore al limite dei sei anni introdotto dalla nuova versione dell'art. 275, comma 4, come novellato ad opera della legge n. 62 del 2011, occorrerà verificare se tale disposizione, per come modificata, risulti o meno in atto applicabile: quesito la cui soluzione è resa per più versi problematica, alla luce della non certo perspicua formulazione della relativa disciplina intertemporale, enunciata nel comma 4 dell'art. l della stessa legge n. 62 del 2011. Tale legge, come emerge dagli originari disegni di legge, poi confluiti in un testo unificato predisposto dall' apposito comitato ristretto, si proponeva, nelle grandi linee, lo scopo di delineare un nuovo quadro normativo in materia di detenute madri che, pur rispettoso della esigenza di un effettivo esercizio della potestà punitiva dello Stato nei confronti di chi commette un reato, non si ponesse tuttavia in conflitto con la necessaria tutela della maternità e dell'infanzia riconosciuta dall'art. 31 della Carta costituzionale e da numerosi strumenti di rango comunitario e pattizio. Da qui, e per quel che qui interessa, la riformulazione del comma 4 dell'art. 275, con la quale si è portata da tre a sei anni - ed in chiara correlazione con il raggiungimento dell'età scolare -la età della prole che consente alla madre di non subire la custodia cautelare in carcere se non in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, e la previsione, del tutto nuova, dell'istituto della “custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri”, realizzato attroverso l'inserimento dell'art. 285-bis del codice di procedura penale, applicabile nei confronti delle madri di bambini di età non superiore a sei anni, «ove le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza lo consentano». Sin dai primi commenti sulla legge si è osservato come il riferimento agli istituti di custodia attenuata rappresentasse una realtà non del tutto sconosciuta, al punto che nel corso dei lavori preparatori della stessa legge n. 62 del 2011 il Governo oveva prodotto documentazione e statistiche al riguardo (si veda, in particolare, l'allegato 3 agli atti della Commissione II della Camera del 23 giugno 2010, ove si riferisce che l'amministrazione penitenziaria ha già operante un Le.A.M. a Milano). In mancanza di atti formali istitutivi, dallo stesso sito ufficiale del Ministero della Giustizia si apprende che il Dipartimento della amministrazione penitenziari a ha affrontato il problema dei bambini in carcere, avviando la sperimentazione di un tipo di istituto a custodia attenuata per madri (Le.A.M.), il cui modello organizzativo è analogo a quello della custodia attenuata per tossicodipendenti - a norma dell'art. 95 del d.P.R. n. 309 del 1990 - anche se non ne possiede l'aspetto terapeutico. Tale modello - si puntualizza nel corredo informativo su tale iniziativa - adotta uno strumento operativo di tipo comunitario da realizzare in sedi esterne agli istituti penitenziari, dotate di sistemi di sicurezza non riconoscibili dai bambini. Tramite gli LC.A.M. l'amministrazione penitenziaria intende consentire ai bambini figli di detenute di trascorrere i loro primissimi anni in un ambiente familiare che non ricordi il carcere, riducendo così il rischio d'insorgenza di problemi legati allo sviluppo della sfera emotiva e relazionale. L'istituto - si puntualizza ancora nelle informazioni offerte nel sito - prevede, poi, un percorso personalizzato per ogni detenuta, offrendo opportunità scolastiche, di mediazione linguistica e culturale. L'unico L. C.A.” attualmente esistente è stato inaugurato a Milano nel dicembre 2006 ed è frutto di un accordo tra il Ministero della Giustizia, la Regione Lombardia, nonché la Provincia ed il Comune di Milano. Il 27 gennaio 2010 è stato stipulato un protocollo d'intesta tra il dipartimento della amministrazione penitenziaria, la Regione Toscana ed altri organismi locali per la creazione di una sezione a custodia attenuata per detenute madri a Firenze.
Questa è, dunque, la situazione attuale degli Le.A.M., per i quali, va ribadito, non risulta adottata sin qui alcuna fonte di rango normativo, regolamentare o di altro genere che ne definisca in modo organico e unitario i compiti e le attribuzioni sul piano strutturale ed ordinamentale. Se ne può dedurre, pertanto, che gli istituti di che tratta si operano come articolazioni in via sperimentale di strutture della amministrazione penitenziaria. Il che, evidentemente, non mancherà di assumere uno specifico risalto, proprio agli effetti della disamina della disciplina transitoria che regola l'operatività della novella di cui innanzi si è detto (sulla esperienza degli istituti a custodia attenuata per detenute madri, si veda - tra i lavori parlamentari della legge n. 62 del 2011 - la relazione svolta dall'on. M. S. nella seduta del 7 febbraio 2011 alla Camera dei deputati, specie nella parte in cui riferisce i dati e le notizie circa la struttura e le finalità di tali istituti offerti dal Capo del Dipartimento della amministrazione penitenziaria nel corso della sua audizione). Prevede, infatti, il comma 4 dell' art. 1 della legge n. 62 del 20 Il, che «Le disposizioni di cui al presente articolo (vale a dire, il “nuovo” comma 4 dell'art. 275 ed il “nuovo” art. 285-bis cod. proc. pen.) si applicano a far data dalla completa attuazione del piano straordinario penitenziario, e comunque a decorrere dal 10 gennaio 2014, fatta salva la possibilità di utilizzare i posti già disponibili a legislazione vigente presso gli istituti a custodia attenuata». Il non limpido succedersi della previsione relativa alla entrata in vigore, con la ambigua riserva di immediata possibilità di utilizzazione di posti presso istituti a custodia attenuata, rende all'evidenza contorta la lettura unitaria del comma. Tuttavia, occorre considerare che la modifica relativa all'ampliamento del limite di età dei figli delle indagate madri, che fa scattare la deroga alla custodia carceraria salvo la presenza di esigenze di eccezionale rilevanza, si salda intimamente alla nuova misura della custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri, di cui all' art. 285-bis, posto che quest'ultima, nuova, misura cautelare di tipo custodiale richiama proprio il comma 4 dell'art. 275, quale fonte logicamente “presupposta”, e trova appunto applicazione per le donne con prole di età non superiore a sei anni, nei confronti delle quali si ravvisino esigenze di eccezionale rilevanza. Misura alternativa alla custodia carceraria (purché le esigenze cautelari eccezionali risultino con essa compatibili) che presuppone, a sua volta, l'esistenza di specifici istituti di custodia. In tal senso si spiega, quindi, la diluizione temporale circa l'applicazione delle nuove norme sino alla completa attuazione del piano straordinario penitenziario adottato il 14 gennaio 2010 dal Consiglio dei ministri in base alla legge 24 febbraio 1992, n. 225, (evenienza, questa, incerta nell'an e nel quando, e per di più di imponderabile verificabilità, posto che al completamento attuativo di quel piano non si accompagna un provvedimento “ricognitivo”, destinato a forme specifiche di pubblicità notizia) ovvero alla data del l gennaio 2014. D'altra parte, la riserva relativa alla possibilità di utilizzare i posti già disponibili presso gli istituti a custodia attenuata, si riferisce espressamente a quanto risulta consentito in base alla «legislazione vigente»; sicché, nessun riflesso può desumersi da quella clausola sul piano della applicazione della disciplina “novellata”, posto che la relativa entrata in vigore è stata espressamente differita. Per altro verso, considerato, come si è visto, che i “posti” attualmente disponibili presso i luoghi a custodia attenuata non scaturiscono da un istituto - quale è il “nuovo” art. 285-bis cod. proc. pen. normativamente previsto, ma esclusivamente da un programma sperimentale, in corso, attualmente, presso una sola struttura penitenziaria, sarebbe davvero paradossale ed in contrasto con più parametri di costituzionalità, far dipendere l'applicazione di un regime cautelare di indubbio favor dalla semplice esistenza e disponibilità di “posti” presso una struttura sperimentale della amministrazione penitenziaria. La possibilità, dunque, di utilizzare quei posti, si riferisce, pertanto, alla prosecuzione sperimentale di una modalità alternativa di custodia, che nei fatti consente di “anticipare” i contenuti propri della misura delineata dall'art. 285-bis cod. proc. pen., posto che quest'ultima - come chiaramente emerge dai lavori parlamentari della legge n. 62 del 2011 - ha inteso recepire proprio quel modulo sperimentale, peraltro tutt'ora da specificare (quanto a modalità esecutive) sul piano nonnativo e regolamentare.
Dai rilievi innanzi svolti deriva, quindi, che le modifiche dell'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., non possono ritenersi ancora applicabili, con la conseguenza che la doglianza formulata sul punto dalla ricorrente deve essere disattesa. Sono invece fondate le censure relative alla carenza di motivazione in ordine all'apprezzamento delle condizioni di salute della imputata e del figlio, posto che, al di là di enunciati nella sostanza generici, i giudici del merito hanno omesso di scandagliare la portata delle relative deduzioni difensive, non soltanto sul versante della concreta ed attuale compatibilità di quelle condizioni con il permanere dello status custodiale carcerario ma anche sotto il profilo della rilevanza che quelle stesse condizioni, in una con tutte le altre circostanze del caso concreto, fra le quali la condotta serbata dall'imputata, possono presentare agli effetti dello scrutinio in ordine all'effettivo permanere di esigenze cautelari. L'ordinanza impugnata deve pertanto essere annullata sul punto, con rinvio al Tribunale di Napoli per nuovo esame.
P. Q. M.
Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Napoli. Si provveda a norma dell'art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.

Depositata in Cancelleria il 28.03.2012
Avv. Antonino Sugamele

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