ll matrimonio islamico.
IL MATRIMONIO ISLAMICO
A) GENERALITÀ.
Il diritto islamico classico riconosce e tutela unicamente la famiglia legittima, basata su un vincolo di sangue (nasab), fondata sulla discendenza maschile, all’interno della quale l’uomo gode di potestà matrimoniale e genitoriale, da cui deriva un diritto di correzione (ta’dhīb) rispetto alla moglie ed ai figli secondo regole strettamente patriarcali. A tal proposito, il Corano recita che «sugli uomini c’è un grado maggiore», anche traducibile con «gli uomini hanno maggior responsabilità in materia di rapporti familiari» (II, 228). In base alla Sunnah, l’autorità familiare va però espletata rispettando i principi della concertazione e della complementarietà dei coniugi in materia di decisioni familiari. Non esiste nessun grado di parentela naturale fuori dal matrimonio, né tantomeno è ammessa la tradizionale forma di adozione. L’adozione, in quanto istituto che equipara i figli adottivi a quelli legittimi, è espressamente vietata dal Corano (XXXIII, 4-5) perché rescinde i legami tra il minore abbandonato e la famiglia di origine. Gli stessi versetti parlano però di «figli adottivi» nel senso di ammettere altre forme di protezione del minore che non consistano in adozioni legittimanti. Il diritto islamico prevede, perciò, l’istituto della Kafāla (richiamato dalla Convenzione ONU del 1989), simile sotto molti aspetti all’ affidamento illimitato o sine die. Il matrimonio (nikāh) è considerato un atto lodevole e meritorio la cui principale funzione si sostanzia nella legalizzazione dei rapporti sessuali, altrimenti illeciti, e nell’assicurazione della continuazione della specie. Pertanto, come nel diritto canonico, la Sharī’ah attribuisce una grande importanza all’aspetto della consumazione del matrimonio. Sotto il profilo delle categorie delle azioni umane il matrimonio è doveroso (fard) o necessario (wājib) per l’uomo che teme di cadere nella fornicazione restando scapolo, che è in grado di mantenere una moglie e certo di non nuocerle sposandola; è riprovevole o reprensibile (makrūh) nel caso in cui l’uomo abbia il dubbio o la certezza di rendere infelice la donna; è infine illecito o vietato (harām, mahdhūr) in presenza di una delle ipotesi disciplinate di impedimento al matrimonio (Vercellin). Dal punto di vista dei furū’ al-fiqh il matrimonio rende leciti i rapporti tra uomo e donna e si sostanzia in un vero e proprio negozio giuridico. Sotto questo profilo, il diritto islamico classico non lo riconosce come sacramento né conferisce alcuna importanza all’elemento dell’ affectio maritalis (cioè dalla voglia dei coniugi della vita comune), costituendo il matrimonio un contratto bilaterale di diritto civile. Questa concezione è stranamente analoga a quella del nostro «matrimonio canonico» che è visto anch’esso sotto l’ ottica contrattualistica, mentre il matrimonio civile nel nostro ordinamento prevede la concezione del matrimonio come «atto». L’ oggetto del contratto matrimoniale è duplice: per l’uomo è rappresentato dai diritti di godimento sessuali e di autorità maritale nei confronti della donna, per la donna è costituito dal diritto al donativo nuziale obbligatorio (mahr) e al mantenimento (nafaqa). Dal punto di vista della Sharī’ah il matrimonio è un contratto formale che, in quanto espressione esplicita di un consenso, una volta validamente formato non può più essere impugnato dalle parti. Per la sua validità non è necessaria una celebrazione «pubblica»; oggi, comunque, è anche prevista la trascrizione in apposito registro tenuto in tribunale. Il diritto malichita, in passato, riconosceva il matrimonio valido se a questo veniva data una certa pubblicità, poiché è questa che distingue l’unione legittima (matrimonio) dall’unione libera o fornicazione (zinā). Infatti, la dottrina malichita prescrive l’intervanto alla cerimonia di due testimoni musulmani, maschi, puberi e sani di mente. Gli elementi essenziali o pilastri perché il matrimonio sia valido e conforme alla Sharī’ah sono: la capacità giuridica dei contraenti, il consenso, l’intervento del tutore (walī) e la costituzione del donativo nuziale (mahr).
B) LA CAPACITÀ GIURIDICA E L’INTERVENTO DEL TUTORE (walī).
Le parti del contratto matrimoniale non necessariamente coincidono con i coniugi. Occorre infatti distinguere tra capacità di essere titolare di un rapporto matrimoniale, che per la Sharī’ah si acquisisce in linea di principio con la nascita, e capacità di contrarre matrimonio, che per le diverse scuole è collegata al raggiungimento della pubertà (dai 15 ai 17 anni per la donna, dai 15 ai 18 anni per l’uomo). Il tutore matrimoniale (walī) interviene il linea generale a contrarre matrimonio in nome e per conto del nubendo/a in età immatura, ma non solo. Le diverse scuole giuridiche hanno infatti delle posizioni differenti circa i soggetti del contratto di matrimonio: - secondo gli schafi’iti, essi sono l’uomo e l’agnato maschio più prossimo della donna, in qualità di walī, che esprime il consenso in sua vece (la donna rappresentando l’oggetto del contratto); - per le altre scuole, pur essendo la donna soggetto del contratto, la sua manifestazione di volontà deve essere, a pena di nullità o annullabilità, integrata da quella del walī. Il walī deve essere musulmano, di sesso maschile, avere capacità giuridica e capacita di agire. Secondo i malichiti, il walī può essere un ebreo o un cristiano qualora la futura sposa dovesse appartenere, rispettivamente, alla religione ebraica o a quella cristiana. L’esercizio della tutela matrimoniale avviene secondo un ordine di chiamata stabilito dalla Sharī’ ah (figlio, padre, fratello germano, fratello consanguineo, figlio del fratello germano, figlio del fratello consanguineo, avo paterno, agnati maschi, qāddī, vicino).
C) IL CONSENSO.
Fino al raggiungimento della pubertà il padre o l’agnato più prossimo è titolare della wilāyat al-ijbār, ossia del potere di costrizione al matrimonio esercitabile in linea di principio sia sulla donna che sull’uomo. Per la scuola malichita e sciafi’ ita tale potere permane anche in seguito al raggiungimento della pubertà nel caso della donna che sia ancora illibata. Quasi tutte le legislazioni vigenti negli Stati arabi oggi hanno vietato i matrimoni precoci e soppresso l’istituto del wilāyat al-ijbār, coerentemente con il dettato coranico che non ammette alcuna forma di costrizione al matrimonio. Se la donna non può più essere costretta a contrarre matrimonio resta, comunque, l’assistenza e il concorso di volontà del walī nella scelta dello sposo (soltanto l’Iraq ha soppresso completamente questa figura). Anche laddove venga riconosciuto alla donna il diritto di contrarre personalmente matrimonio, il relativo contratto può essere impugnato dal walī per inadeguatezza dello sposo o esiguità del donativo nuziale e sciolto giudizialmente, ciò a tutela di una presunta incapacità valutativa che si ritiene possa danneggiare la donna. In particolare, per quanto concerne l’età matrimoniale, le diverse legislazioni nazionali hanno fissato un’età sotto la quale è possibile sposarsi solo su autorizzazione del giudice, per ragioni di utilità o provate necessità, dopo che il walī abbia dato il proprio consenso ( es. in Libia l’età fissata è di 20 anni per entrambi, in Marocco 18 per il maschio e 15 per la femmina, in Tunisia 20 e 17); spesso per evitare che i giudici autorizzino comunque unioni in tenerissima età, nei vari Paesi islamici è stata fissata un’altra età inferiore a quella matrimoniale, al di sotto della quale è impossibile che il matrimonio sia materialmente registrato.
D) IL DONATIVO NUZIALE (mahr).
Il mahr, o donativo nuziale, è sempre citato nel Corano congiuntamente al nikāh e costituisce il quarto elemento essenziale del contratto matrimoniale, poiché, senza di esso il contratto è nullo. Il Corano infatti recita:«…vi è permesso cercare [mogli] utilizzando i vostri beni in modo onesto e senza abbandonarvi al libertinaggio. Così come godrete di esse, verserete loro la dote che è dovuta» (IV,24). Più che un semplice prezzo di vendita, esso sembra rappresentare il corrispettivo per il consenso che la donna dà al marito per l’uso che egli fa della potestà matrimoniale o più semplicemente un corrispettivo o prezzo del godimento sessuale (Vercellin). Il mahr è un donativo determinato ed obbligatorio che deve essere versato in contanti all’atto del matrimonio (per la scuola malichita), ma costituisce soltanto una promessa obbligatoria negli altri casi. Esso viene attribuito esclusivamente alla donna e rimane di sua esclusiva proprietà, in questo senso si colloca agli antipodi rispetto all’istituto della dote della tradizione occidentale, mentre è stato paragonato all’istituto della Morgengabe del diritto germanico. Per gran parte dei musulmani il mahr ha un valore simbolico, ma può essere al contempo considerato un parametro di valutazione della serietà delle intenzioni del futuro sposo ed il suo ammontare deve essere esplicitamente definito nel contratto matrimoniale. Solo le scuole di rito hanafita e malichita definiscono un valore minimo del mahr al di sotto del quale il matrimonio non è valido. Anche se il donativo deve essere generalmente pagato al momento della stipulazione del contratto, spesso è consuetudine stipulare che una metà sia pagata subito ed il resto ad un termine stabilito. Questa parte residua di mahr si chiama kali e costituisce un credito della moglie verso il marito. Nel contratto matrimoniale deve essere indicato il termine per il pagamento del kali; in caso di omissione delle indicazioni del termine; il contratto è rescindibile finché il matrimonio non sia stato consumato; se la consumazione è già avvenuta, il giudice assegna al marito un termine per effettuare il pagamento. La dote è di esclusiva proprietà e disponibilità della moglie (Mudāwana del Marocco n. 16) che la gestisce come crede, senza interferenza del marito, in quanto, per alcune scuole, costituirebbe il prezzo che l’uomo paga affinché la sposa si offra a lui fisicamente. Il mahr non costituisce, come si potrebbe pensare, una sorta di «risarcimento per la verginità perduta», poiché quest’ultima non rappresenta un requisito fondamentale alla contrazione del matrimonio: i precetti religiosi consentono a donne vedove o divorziate di impegnarsi in un nuovo matrimonio (nell’ultimo caso, essendo lecito il divorzio) e di ricevere una nuova dote dal secondo marito.
E) LA POLIGAMIA.
Il matrimonio è monoandrico poliginico; cioè solo l’uomo può avere più mogli, fino ad un massimo di quattro. La poligamia viene giustificata sulla base di un unico versetto contenuto nel Corano, dall’enunciato piuttosto complesso: «E se temete di essere ingiusti nei confronti degli orfani sposate allora due o tre o quattro tra le donne che vi piacciono; ma se temete di essere ingiusti, allora sia una sola o le ancelle che le vostre destre possiedono, ciò è più atto ad evitare di essere ingiusti» (IV,3). Il Corano prescrive al marito il dovere di essere equo e trattare allo stesso modo ognuna delle sue mogli, anche sotto il profilo della soddisfazione sessuale. Inoltre, poiché per ogni donna sposata l’uomo deve essere in grado di pagare il donativo, senza intaccare i diritti matrimoniali delle precedenti mogli, risulta evidente come l’esercizio di questa facoltà da parte dell’uomo sia strettamente correlata alle sue condizioni economiche; se non esiste questo presupposto la moglie può chiedere al qāddī (giudice) di pronunciare il divorzio. La poligamia è stata fortemente messa in discussione a partire dalla fine del diciannovesimo secolo da alcuni giuristi modernisti e, comunque, è stata ufficialmente abolita dapprima in Turchia nel 1926 ed in seguito anche in altri Paesi come l’Albania o la Tunisia, mentre Paesi come l’Egitto, la Siria, l’Iraq, l’Algeria hanno introdotto notevoli restrizioni pur senza abolirla ufficialmente. Le soluzioni attualmente adottate per scoraggiare la poligamia sono: a) riconoscere alla donna la facoltà di inserire nel contratto matrimoniale una clausola che escluda un nuovo matrimonio, dandole il diritto di chiedere il divorzio (conservando la dote) nel caso in cui detta clausola non venga rispettata dal marito (Giordania, Marocco); b) anche in assenza di clausole contrattuali, riconoscere alla donna il diritto di chiedere il divorzio secondo la legge qualora il marito si risposi (Algeria) o manchino le condizioni economiche; c) subordinare la possibilità del marito di sposare un’altra donna all’adempimento di determinate condizioni sottoposte alla valutazione del giudice ( Siria, Iraq, Libia). In realtà, molti autori ritengono che sia lo stesso Corano a scoraggiare la poligamia, imponendo all’uomo la giustizia fra più mogli (che, intesa come uguale trattamento, risulta essere un obiettivo difficilmente realizzabile) e suggerendo che la scelta di una sola moglie sia il modo migliore per evitare «deviazioni dalla retta via». Essi sostengono, inoltre, che il citato versetto vada contestualizzato storicamente: la poligamia sarebbe stata un’ espediente, nei periodi di guerra e in epoche in cui era precluso alla donna il diritto al lavoro, per sostentare le vedove dei caduti ed i loro figli (probabilmente, gli orfani citati dallo stesso versetto coranico).
F) IL PERFEZIONAMENTO DEL CONTRATTO MATRIMONIALE.
Per il Corano si ritiene in linea generale che il contratto di matrimonio si perfezioni al momento dello scambio dei consensi. Esistono, tuttavia, alcuni Paesi in cui si fa riferimento al momento della consumazione del matrimonio ( assimilato alla presa di possesso nella compravendita per i contratti reali, rispetto ai quali lo scambio di consensi costituisce solo un negozio preliminare). In ogni caso la consumazione costituisce un elemento essenziale: - se la donna ha contratto due matrimoni; tra di essi è considerato valido quello consumato; - in caso di scioglimento per morte del marito o divorzio; la donna ha diritto a tutto il mahr solo se il matrimonio è stato consumato, altrimenti le spetta solo la metà dello stesso.
G) GLI EFFETTI DEL MATRIMONIO E I RAPPORTI TRA I CONIUGI.
Nel Corano si legge: « Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Dio concede agli uni rispetto alle altre [nell’ambito dei rapporti familiari] e perché spendono [per esse] i loro beni ». Dal punto di vista della Legge sacra, l’autorità dell’uomo sulla donna è strettamente correlata all’obbligo di mantenimento, la cui estensione non viene però definita. Si ritiene, generalmente, che esso comprenda il cibo, il vestiario e l’alloggio e che, comunque, debba essere commisurato alle effettive disponibilità economiche del marito. Come corrispettivo, la donna deve prestare obbedienza al marito e rispettarne la potestà: il marito è comunque esonerato dall’obbligo di mantenimento fino a che il matrimonio non sia stato consumato. In virtù della potestà maritale, per la legge islamica, il marito è titolare di una serie di diritti; la moglie in particolare: 1. deve abitare con lui (regola non valida per il marito); 2. lo deve seguire ovunque egli voglia trasferire la sua dimora, salvo clausole contrarie stabilite nel contratto nuziale o speciali circostanze del caso; 3. non deve uscire dal domicilio coniugale senza il consenso, anche tacito, del marito; 4. non deve mostrarsi in pubblico senza velo; 5. non deve ricevere estranei in casa, salvo i parenti stretti con cui è vietato il matrimonio e i fanciulli impuberi; 6. se il marito lo vieta, non può lavorare fuori dalle mura domestiche, a meno che non vi siano clausole nel contratto matrimoniale che dispongono diversamente. La moglie può negarsi al marito solo: 1. se è malata o incinta; 2. se il marito non ha pagato il dono nuziale o quella parte del dono esigibile in contanti; 3. se si trova in pellegrinaggio o nel periodo mestruale; 4. se rifiuta per ragioni legate alla sfera emotiva, purché tale rifiuto non si protragga nel tempo. Nei rapporti patrimoniali tra coniugi vige il sistema della netta separazione dei beni e, salvo poche eccezioni, con il matrimonio la donna musulmana acquisisce la piena capacità di gestire autonomamente il proprio patrimonio. Considerando che il suo mantenimento e quello dei figli gravano interamente sul marito, la sua posizione, sotto il profilo della tutela patrimoniale, è stata ritenuta per molti versi migliore rispetto a quella della donna occidentale. Ruoli diversi sono riconosciuti ai coniugi per quanto attiene alla cura e all’educazione dei figli: alla donna, che ha il compito di allevarli, curarli e sorvegliarli, spetta il diritto di custodia (hadāna) anche in caso di scioglimento del matrimonio, mentre all’uomo spetta, nell’ambito del suo potere di preminenza e correzione, la potestà (wilāya) di decidere sulla loro educazione, istruzione, avviamento al lavoro e matrimonio, oltre al diritto-dovere dell’amministrazione dei beni e la rappresentanza legale dei minori. Il loro mantenimento è a esclusivo carico del padre.
H) LE CONDIZIONI APPONIBILI AL CONTRATTO MATRIMONIALE.
I moderni legislatori, in alcuni casi, hanno riconosciuto la possibilità di mitigare il dovere di obbedienza della moglie e il generale esercizio della potestà maritale attraverso l’apposizione di stipulazioni accessorie al nikāh, anche fuori del contratto o successivamente alla conclusione dello stesso. Tali condizioni possono avere come oggetto disposizioni quali il permesso alla moglie di esercitare una professione o di partecipare alla vita pubblica, l’impegno da parte del marito a non trasferire il domicilio coniugale dalla città d’origine o a non contrarre altri vincoli matrimoniali. La violazione dell’accordo non può produrre lo scioglimento del contratto, in quanto tale scioglimento rappresenterebbe una deroga alla tradizionale legge coranica, ma conferisce alla moglie solo il diritto al risarcimento dei danni.
I) GLI IMPEDIMENTI.
È vietato (harām) contrarre matrimonio con i mahārim (persone che non si possono sposare). Gli impedimenti costituiscono cause di nullità del contratto e si distinguono in perpetui e temporanei. Sono perpetui i vincoli di parentela (tra ascendenti e discendenti e collaterali), affinità o allattamento esplicitamente citati dal Corano (IV, 23). La parentela di latte (tra la nutrice ed alcuni suoi parenti stretti da un lato, e l’allattato dall’altro) è del tutto equiparata, come è possibile notare, a quella di sangue. Questo impedimento è mantenuto anche dalle attuali codificazioni: codice del Marocco (art. 28), dell’Iraq (art. 16), Legge ottomana del 1917 (artt. 18 e 54), Codice della Siria (art. 35), della Tunisia (art. 17), Codice algerino della famiglia (artt. 27, 28, 29). Tra gli impedimenti temporanei ritroviamo: - il precedente «triplice ripudio» (per gli schiavi duplice) effettuato da un uomo nei confronti della stessa donna (salve determinate condizioni); - la differenza di religione: è vietato il matrimonio sia per l’uomo che per la donna con una persona appartenente all’ahl al-awthān (Gente degli idoli: cioè a religioni politeiste), mentre è vietato solo per la donna il matrimonio con una persona appartenente alla Gente del Libro (cristiani, ebrei) in forza della trasmissione in linea paterna dell’appartenenza all’Islam e del divieto islamico di acquisire il cognome del marito (che rescinderebbe i legami con la famiglia di origine e trasformerebbe il matrimonio in un «passaggio di proprietà» dal padre al marito); - l’esistenza di precedente valido vincolo matrimoniale per la donna (quinto vincolo matrimoniale per l’uomo per i Paesi dove è riconosciuta la poligamia); - la «combinazione» (jam): l’uomo non può avere contemporaneamente come mogli due donne imparentate tra loro entro i gradi proibiti di consanguineità, affinità o parentela di latte (non è possibile, ad esempio, sposare due sorelle); - la condanna penale di un coniuge. Un ulteriore impedimento consiste nel fatto di trovarsi in uno stato di malattia mortale trasmissibile. Prima dell’abolizione della schiavitù, erano considerati leciti sia il matrimonio che il concubinato tra la schiava ed il suo padrone (Corano IV, 3; 24-25); il matrimonio, in particolare, era equiparato a tutti gli effetti a quello tra nubendi entrambi liberi, con la sola eccezione del reato di adulterio, a seguito del quale alla schiava era inflitta metà della pena (in virtù della sua debolezza sociale).
L) LA NULLITÀ E L’ANNULLABILITÀ DEL MATRIMONIO.
Il matrimonio non produce i suoi effetti ed è nullo quando manca uno degli elementi essenziali del contratto, ovvero in presenza di un impedimento o di un difetto di forma; può essere annullabile in presenza di alcuni vizi (vizi del mahr, vizi del consenso o «vizi redibitori» come l’impotenza) o di alcune clausole contrarie all’essenza del negozio (ad esempio se si stabilisce che i coniugi non faranno vita comune o che il marito non avrà l’obbligo di mantenere la moglie). La dottrina concorda unanimemente sul fatto che le cause di nullità assoluta debbano essere esplicitamente previste dalla Sharī’ah. Accade però che uno stesso elemento possa essere considerato causa di nullità o di annullabilità a seconda delle diverse scuole (si pensi, ad esempio, la mancanza del walī, cioè del tutore, rende annullabile il matrimonio per i malichiti, mentre per gli sciafi’iti è causa di nullità). Per la Sharī’ah anche il matrimonio nullo produce, comunque, alcuni effetti, quali l’obbligo per la donna di osservare il ritiro legale (‘idda), il suo diritto al pagamento del mahr stabilito, il riconoscimento da parte dell’uomo del figlio concepito con la donna.
M) LO SCIOGLIMENTO DEL MATRIMONIO: RIPUDIO (talāq) E DIVORZIO (tafrī q-khul’).
Il diritto islamico classico contempla tre fattispecie tipiche di scioglimento del matrimonio: il ripudio (talāq), il divorzio giudiziale chiesto da uno dei coniugi per gravi motivi (tafrīq) e il divorzio per mutuo consenso (khul’). A queste cause devono aggiungersi quelle collegate alla conversione e all’apostasia, che fanno cadere il vincolo matrimoniale in conseguenza di quello religioso. Secondo il diritto islamico classico: a) qualora il marito si converta alla religione islamica e la moglie sia monoteista, il matrimonio mantiene la sua validità; se la moglie non è monoteista e non accetta di convertirsi ad una delle religioni monoteiste, il matrimonio è sciolto; b) qualora la moglie si converta alla religione islamica, il marito deve obbligatoriamente seguirla, pena lo scioglimento del matrimonio; c) poiché l’apostata non ha il diritto di sposarsi, se l’apostasia avviene dopo il matrimonio, questo è da ritenersi sciolto. Il ripudio unilaterale (talāq) è un’azione riservata unicamente al marito, che ha il diritto di rinviare la moglie alla famiglia di origine senza esser tenuto in nessun modo a motivare la sua decisione. Oggi, con l’evoluzione del costume, la nuova disciplina codicistica (Mudawāna) ha attenuato tale istituto quasi fino a cancellarlo. Del talāq, comunque, esiste una minuziosa disciplina nello stesso Corano e nell’intera Sharī’ah: nel complesso è necessaria, per allontanare la donna, una triplice dichiarazione verbale del marito (purché non sia stata effettuata in momenti di collera), che può essere portata a conoscenza della moglie anche tramite terzo, ma è lecito ricorrere a tale istituto nei soli casi in cui risultino impossibili la riconciliazione ed il protrarsi della convivenza matrimoniale. A seconda della formulazione adottata, il ripudio può essere revocabile o definitivo, nel qual caso produce immediatamente lo scioglimento del matrimonio. Se un marito ha ripudiato per tre volte la moglie (triplice ripudio), potrà risposarla solo dopo che la stessa abbia sposato un altro marito e il matrimonio sia stato consumato da quest’ultimo. La Sharīa’ ah prevede che l’uomo pronunci per tre volte davanti alla moglie la formula «io ti ripudio» con dichiarazioni separate e a distanza di tempo (per consentire un più attento ripensamento), e quando la moglie non sia mestruata. Il fatto di pronunciare in un’unica dichiarazione il triplice ripudio è diventato una consuetudine in principio proibita, ma successivamente ritenuta valida da alcune scuole. La giurisprudenza sciita nega la validità della suddetta forma di ripudio e prevede un iter più complesso che lasci maggiore spazio al ripensamento: il marito (o un suo rappresentante) deve manifestare la sua volontà di ripudiare la moglie presso uno Shaykh (che, ad es., può trascriverla in un atto formale), per tre volte e a distanza di un mese l’una dall’altra. Solo al terzo ripudio, il matrimonio può considerarsi sciolto. Tale procedura è attualmente prevista in Iran, ma anche nei Paesi a maggioranza sunnita gli sciiti possono farvi ricorso. Oltre al talāq esistono altre varianti del ripudio, come l’ila’ (dichiarazione di astinenza dai rapporti sessuali per più di quattro mesi da parte del marito) o li’an o «giuramento imprecatorio» (dichiarazione del marito che la moglie ha avuto rapporti sessuali illeciti o di non essere il padre del figlio che le è nato). Nonostante la Sharī’ah definisca il ripudio come un atto da adottare solo in caso di necessità, classificandolo tra gli atti riprovevoli o reprensibili, e raccomandi l’instaurazione di procedure di conciliazione degli sposi, nella generalità degli ordinamenti musulmani, l’uomo non è tenuto a dare conto delle proprie motivazioni, rimanendo, il ripudio, un atto perfettamente libero e discrezionale. I legislatori moderni hanno cercato di limitare il ricorso al ripudio in vari modi: sottoponendolo al controllo del giudice prevedendo una serie di correttivi, quali una formula sacrale, che la moglie debba essere informata, stabilendo un diritto al risarcimento a favore della donna in caso di ripudio arbitrario o pregiudizievole per la stessa, nonché vietando il ripudio in caso sia pronunciato sotto effetto di droga, alcool, collera. La possibilità per la moglie di richiedere il divorzio giudiziale (tafrīq) varia considerevolmente da scuola a scuola. È di regola unanimemente riconosciuta in presenza di gravi motivi che rendano impossibili i rapporti sessuali come l’evirazione, la castrazione e l’impotenza. Altri gravi motivi possono essere ravvisati nell’assenza del marito, nei maltrattamenti o nel mancato adempimento dell’obbligo di mantenimento. Il diritto islamico ammette infine il divorzio per mutuo consenso (tafrīq-khul’), generalmente nei casi in cui la donna non può richiedere quello giudiziale e a condizione che ella rifiuti la parte di dote pagabile a termine (‘iwad). Tale diritto viene espressamente previsto dal Corano (II, 229; IV, 128), che parla appunto di una sorta di «riscatto» dovuto al marito, ovvero una compensazione materiale per l’interruzione della convivenza matrimoniale. Un tafrīq-khul’ ripetuto tre volte ha gli stessi effetti del triplice ripudio. Il matrimonio islamico, anche se può essere sciolto con relativa facilità, è in generale concepito per durare. Soltanto la tradizione sciita ammette il matrimonio a termine, anche detto matrimonio di «piacere» (nikāhmut’ah).
N) LA FILIAZIONE E IL DIVIETO DI ADOZIONE: LA KAFĀLA.
Il diritto islamico classico riconosce soltanto la filiazione legittima, in quanto ogni rapporto sessuale al di fuori del matrimonio e del concubinato è considerato illecito ed il rapporto giuridico che lega il genitore al figlio deve necessariamente collegarsi alla generazione biologica. Esso pertanto, sulla base di due versetti coranici (XXXIII, 4-5), vieta l’adozione legittimante, che rescinde i rapporti tra il minore abbandonato e la famiglia di origine. È però previsto l’istituto della kafāla, che presenta molte affinità con l’affidamento illimitato o sine die. Chiunque può pertanto assumersi l’impegno di provvedere alle necessità di un’infante abbandonato, pur senza attribuirgli il proprio nome, potendo altresì concedergli fino ad un terzo dell’eredità, ovvero quella parte non spettante agli eredi legittimi, mediante un atto di ultima volontà (tandhil). È ritenuto legittimo il figlio nato almeno sei mesi dopo il matrimonio, rappresentando questo periodo la durata minima della gravidanza stabilita dal Corano. Si presume legittimo anche i figlio della moglie nato dopo lo scioglimento del matrimonio, purché non sia trascorso il termine massimo della gestazione. In assenza di precise disposizioni coraniche sulla durata massima della gestazione si sono sviluppate diverse opinioni (due anni per gli hanafiti, quattro per gli hanbaliti, sette per i malichiti) sulla base della cosiddetta teoria del feto dormiente, per cui il concepito può per un certo periodo di tempo, vivere di vita latente nel grembo della madre. La filiazione si può stabilire anche per riconoscimento. Il padre può riconoscere un figlio nato all’interno del matrimonio, la cui paternità naturale è ignota e che per la sua età possa ragionevolmente presumersi figlio di colui che lo riconosce come suo. Il ricorso al riconoscimento era necessario per il figlio nato dall’unione della schiava con il proprio padrone, in cui il rapporto di concubinato era lecito, ma il nasab non poteva stabilirsi per presunzione a causa della mancata costituzione del matrimonio.
20-09-2012 18:45
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