Non possono essere rimborsate le spese fatte da un coniuge sull’abitazione di proprietà esclusiva dell’altro, anche quando incrementano il valore del bene, se avvenute in adempimento dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 143 c.c.
Poiché durante il matrimonio ciascun coniuge è tenuto a contribuire alle esigenze della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze, secondo quanto previsto dagli artt. 143 e 316 bis, primo comma, c.c., a seguito della separazione non sussiste il diritto al rimborso di un coniuge nei confronti dell’altro per le spese sostenute in modo indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio.
Tribunale di Vicenza, sentenza 25 settembre 2024 n. 1624
Svolgimento del processo e motivi della decisione
1. Gli Antefatti e Le vicende processuali. A. A. e B. B. sono stati sposati (dal [omissis]), ed hanno
avuto due figlie, [omissis] […] (nel [omissis]) ed [omissis] (nel [omissis]); essi acquistarono, in
ragione di una metà ciascuno, la casa adibita a casa coniugale, in [omissis], via [omissis], con atto
per Notaio [omissis] del [omissis], “seguito”, due mesi dopo, da un mutuo che, nel frattempo, è stato
estinto. Nel [omissis] i coniugi ottenevano sentenza di separazione, che, fra l'altro, su congiunte
richieste delle parti, assegnava la casa coniugale al B. B. quale collocatario delle figlie minori. Nel
[omissis] interveniva la sentenza di divorzio, nuovamente su congiunte richieste delle parti; in tal
caso la formula relativa alla casa coniugale non menzionava più una assegnazione ma il più generico
termine di “disponibilità”, sempre in favore del B. B.. Proponendo la presente causa, nel [omissis],
contro l'ex marito, che è rimasto contumace, A. A. […] ha avanzato le seguenti domande:
PRIMA DOMANDA La A. A. deduce che, all'indomani della sentenza di divorzio, del [omissis],
l'occupazione della casa ex coniugale da parte del B. B. le darebbe titolo per ottenere, dall'ex marito,
una indennità di occupazione per ogni mese decorso da allora, per il solo fatto di occuparla,
evidentemente, con esclusione della attrice medesima, la quale, appena un mese dopo la
pubblicazione della sentenza di divorzio, avanzò già all'ex coniuge la richiesta di ricevere una siffatta
indennità di occupazione, calcolata nella metà del canone di locazione ricavabile dall'immobile.
SECONDA DOMANDA La A. A. deduce di aver sostenuto tutta una serie di spese inerenti,
nuovamente, l'acquisto dell'immobile destinato ad abitazione coniugale, fra cui: acconti prezzo al
venditore, compensi per le imprese per lavori extracapitolato, spese del Notaio, acquisto di mobilio
e di cucina, lavori di impianto elettrico ed idraulico. Aggiunge poi che il prezzo speso per acquistare
la casa (190 milioni in vecchie lire, nel [omissis]) non è stato versato dai due coniugi in parti uguali,
nemmeno attraverso il mutuo: non solo, infatti, essa avrebbe pagato la parte di prezzo non coperta
da mutuo (il mutuo è stato di 83.000 euro, nel [omissis]) ma, diversamente dalla prassi di pagare,
ciascuno, la metà di ogni singola rata di mutuo, vi sarebbero state 11 rate che essa avrebbe versato
in modo esclusivo. Tutte tali voci si traducono, in tesi, in un suo diritto di credito, per la parte
eccedente la metà di sua spettanza, che forma appunto oggetto della seconda domanda.
TERZA DOMANDA La A. A. domanda poi la divisione dell'immobile, ma, consapevole della sua
indivisibilità in natura, come attestata dalla CTU svolta in questa causa, non ne chiede l'assegnazione
per l'intero, ed “accetta”, quindi, che l'immobile sia posto in vendita all'asta, per la spartizione del
ricavato. Segnala peraltro come dalla CTU sia risultata anche l'esistenza di una ipoteca iscritta dal B.
B. sulla metà di proprietà di lui. Nella contumacia del convenuto, la causa è stata istruita mediante
alcune prove orali (che non hanno avuto però particolare rilievo), e mediante la già menzionata CTU
(della geom. [omissis]), la quale ha accertato la non divisibilità in natura dell'immobile in due parti
di uguale valore. La causa è oggi in decisione. 2.
La Decisione
Si è detto che con la prima domanda la A. A. ritiene derivare a suo vantaggio, dal fatto che il B. B.
occupa la casa ex coniugale da dopo la sentenza di divorzio (quando la formula dell'assegnazione
della casa fu sostituita dalla formula di una “disponibilità” della casa) un suo diritto di ottenere,
dall'ex marito, una indennità di occupazione per ogni mese decorso da allora, per risarcire pro quota
il mancato godimento proprio di lei. La domanda è infondata. Proprio nella clausola dei patti di
divorzio, posti a base della sentenza, c'è, come detto, la decisione dei comproprietari che la casa
sarebbe “restata nella disponibilità del B. B..Benché questo concetto sia diverso da quello
dell'assegnazione (assegnazione che infatti non è più menzionata), esso tuttavia non è, naturalmente,
privo di effetto e significato: e sta ad evocare (tale è certamente l'unico senso attribuibile alla frase)
che al B. B. fosse lasciato l'uso esclusivo dell'immobile, uso che per di più deve intendersi anche
come gratuito, poiché in caso contrario la clausola sarebbe stata scritta diversamente.
Pare dunque al Tribunale che con un negozio atipico, ma certamente valido, la comproprietaria A.
A. ha costituito con il comproprietario B. B. un'obbligazione, avente efficacia solo fra le parti, in forza
della quale ha lasciato a lui l'intero godimento della abitazione, e ciò secondo sue proprie valutazioni
rientranti nell'economia del globale accordo intercorso. Né muta la situazione la lettera scritta
appena un mese dopo la sentenza di divorzio.
Quella richiesta, infatti, diversamente da un caso standard, non interveniva ad esprimere una
rimostranza rispetto ad una avvenuta occupazione “arbitraria” oppure inattesa dell'altro
proprietario, ma sorgeva all'indomani di una espressione di volontà della stessa A. A. nel senso di
attribuire al suo ex marito il diritto di godimento della casa. Dunque, su un piano logico, stride che
la A. A. esprimesse una volontà contraria rispetto a quella espressa appena un mese prima, e, su un
piano giuridico, essa non poteva certo, con una manifestazione unilaterale, porre nel nulla gli effetti
di un negozio bilaterale validamente concluso. Anche la seconda domanda è infondata, e ciò sulla
base di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, che anche in tempi recenti ha trovato
nuove conferme. Si tratta del noto principio secondo cui, in virtù dell'art. 143 c.c., entrambi i coniugi
sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale
o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia; pertanto a seguito di separazione coniugale non
può essere richiesto il rimborso delle spese sostenute per il soddisfacimento dei bisogni collettivi
durante il (o in vista del) matrimonio (così, di recente, ma fra le tante, Trib. Rovigo 856/23). E la
sentenza rodigina, trattando di un caso di lavori di ristrutturazione di un immobile adibito a casa
coniugale, pagati dalla moglie a fronte della proprietà della casa in capo al marito, ha ricordato come
i bisogni della famiglia, al cui soddisfacimento i coniugi sono tenuti a norma dell'art. 143 c.c., non si
esauriscono in quelli, minimi, al di sotto dei quali verrebbero in gioco la stessa comunione di vita e
la stessa sopravvivenza del gruppo, ma possono avere, nei singoli contesti familiari, un contenuto
più ampio, soprattutto in quelle situazioni caratterizzate da ampie e diffuse disponibilità
patrimoniali dei coniugi, situazioni le quali sono anch'esse riconducibili alla logica della solidarietà
coniugale. Essa ha poi richiamato, a conferma dell'orientamento, la pronuncia di Cass., 9144/2023, e
quella di Cass., 10927/2018, secondo cui “poiché durante il matrimonio ciascun coniuge è tenuto a
contribuire alle esigenze della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze, secondo
quanto previsto dagli artt. 143 e 316 bis, primo comma, c.c., a seguito della separazione non sussiste
il diritto al rimborso di un coniuge nei confronti dell'altro per le spese sostenute in modo
indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio”.
Nello stesso senso: Cass., 10942/2015: non possono essere rimborsate le spese fatte da un coniuge
sull'abitazione di proprietà esclusiva dell'altro, anche quando incrementano il valore del bene, se
avvenute in adempimento dell'obbligo di contribuzione di cui all'art. 143 c.c. Insomma, l'importo di
cui l'attrice richiede il rimborso è in realtà la somma di esborsi inquadrabili nell'alveo dei doveri di
contribuzione previsti dall'art. 143, terzo comma, c.c., anche perché non è stato provato il
superamento dei limiti di proporzionalità e adeguatezza. Va aggiunto poi che l'attrice ha citato in
più passaggi la disciplina del rimborso delle spese nell'ambito di una comunione ordinaria; il
riferimento è però improprio, in quanto la comunione di cui si discute in questa sede è nata e si è
sviluppata nel contesto di un rapporto di coniugio, il quale, appunto, vive di regole proprie e
specifiche che sono estranee alla disciplina della comunione ordinaria.
Quanto alla domanda di scioglimento della comunione, benché essa sia l‘espressione di un diritto di
ogni comproprietario (art. 1111 cc), anch'essa potrebbe suscitare qualche perplessità, per lo meno
nella misura in cui anch'essa viene a contraddire quel diritto di godimento del B. B. che la A. A. stessa
gli concesse con gli accordi del [omissis].
E' chiaro infatti che l'attrice non vuole l'assegnazione in natura dei beni, per cui l'unica soluzione
sarà la messa in vendita di essi, con successiva ripartizione del denaro ricavato, ma è altrettanto
chiaro che al terzo acquirente non sarà opponibile l'accordo del [omissis], in quanto rapporto
meramente obbligatorio.
Di fatto, dunque, la A. A. ha diritto ad ottenere la divisione dell'immobile, ma così facendo si porrà
nella situazione di soggetto inadempiente rispetto ai patti del [omissis] (in forza dei quali si era
impegnata a concedere all'ex coniuge il diritto di godimento della casa); la situazione, come da regole
generali, si potrà se del caso risolvere con una separata ed eventuale domanda risarcitoria da parte
del B. B.
P. Q. M.
1. respinge le domande di parte attrice, ad eccezione di quella di scioglimento della comunione,
2. dichiara che il compendio per cui è causa non è comodamente divisibile in natura, e pertanto,
dispone, con separata ordinanza, la sua messa in vendita, con successiva ripartizione del denaro
ricavato; 3. spese alla sentenza definitiva
02-11-2024 18:53
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