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Sentenza

A chi spetta il cane della coppia alla fine della relazione? Incide la brevità della relazione e l'assenza del requisito della convivenza nel riconoscimento di una famiglia di fatto ed il conseguente diritto di visita?
A chi spetta il cane della coppia alla fine della relazione? Incide la brevità della relazione e l'assenza del requisito della convivenza nel riconoscimento di una famiglia di fatto ed il conseguente diritto di visita?
Cass. civ., sez. II, ord., 24 marzo 2023, n. 8459

Presidente Lombardo – Relatore Oliva 

Fatti di causa

Con atto di citazione ritualmente notificato F.C. evocava in giudizio B.A.  innanzi il Tribunale di Padova, chiedendo che venisse accertata la sua qualità di comproprietaria di un cane, acquistato nel corso della precedente relazione affettiva stabile intercorsa tra le parti, nonché lo scioglimento della relativa comunione con affidamento dell'animale e risarcimento dei danni, emotivi e patrimoniali. Si costituiva B.A., negando la sussistenza della comunione e sostenendo la carenza di legittimazione attiva dell'attrice. Con sentenza n. 452-2021 il Tribunale di Padova accoglieva parzialmente la domanda attorea, ritenendo dimostrata la proprietà del cane in capo al B. ma riconoscendo, nell'interesse dell'animale, il diritto della F. alla frequentazione del cane.

Interponeva appello avverso detta decisione B.A., mentre F.C. spiegava appello incidentale in relazione alla domanda di affidamento. Con la sentenza impugnata, n. 340-2022, la Corte di Appello di Venezia, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, rigettava tutte le domande attoree, condannando la F. al pagamento delle spese.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione F.C., affidandosi a cinque. B.A.  resiste con controricorso. La parte ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell'adunanza camerale.

Ragioni della decisione

Con il primo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge e omessa motivazione. La Corte di Appello, infatti, avrebbe erroneamente escluso il diritto di proprietà della F.  sul cane senza ammettere l'interrogatorio formale richiesto dalla ricorrente ai fini della dimostrazione della comproprietà dell'animale, disattendendo -così- il diritto della parte a ricorrere a prove costituende.

La censura è inammissibile.

La valutazione circa l'ammissione dei mezzi di prova rientra nei poteri discrezionali del giudice, il quale non è tenuto ad ammetterli qualora li ritenga superflui.

Come chiarito da questa Corte, infatti, proprio in tema di interrogatorio formale, la parte richiedente può soltanto invocare il potere discrezionale del giudice di merito di ammettere tale mezzo di prova, rientrando -però- nelle sue facoltà il rigetto della richiesta -non sindacabile in Cassazione- ove ritenga sussistenti elementi di prova sufficienti a fondare la propria decisione. (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 20104 del 18/09/2009, Rv. 609677; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 24370 del 16/11/2006, Rv. 593352).

Come si desume dalla lettura della sentenza, la Corte di Appello ha legittimamente escluso l'ammissione del mezzo di prova richiesto dalla ricorrente sulla base della non indispensabilità dello stesso, ritenendo già sufficientemente provata la proprietà dell'animale in capo al B.. Si legge, sul punto, in motivazione: "Il primo elemento attiene alla proprietà del cane […] che è pacificamente da ricondurre al sig. B. (...) in considerazione della copiosa documentazione da questi prodotta comprovante l'acquisto dell'animale, la sua assicurazione, il rilascio dei documenti attestanti la proprietà (...), le numerose ricevute per prestazioni veterinarie a favore del cane […]" (cfr. pag. 20). "(...) Altrettanto non può dirsi rispetto ai documenti prodotti dalla appellata che si limitano a rappresentazioni fotografiche del cane (...) che, tuttavia, non sono in grado di scalfire quanto risulta provato dal sig. B." (cfr. pag. 22).

Con il secondo e terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione della L. n. 76 del 2016 e dell'art. 132, comma 2, c.p.c. per aver la Corte omesso di valutare, senza motivare sul punto, la sussistenza di un rapporto tra le parti qualificabile come coppia di fatto e, di conseguenza, per aver escluso l'esistenza di un legame affettivo stabile con l'animale.

Entrambi i motivi, suscettibili di trattazione congiunta, sono inammissibili.

Le censure, infatti, non si confrontano con la motivazione della sentenza, la quale -oltre ad aver effettivamente considerato la possibile sussistenza di una famiglia di fatto tra le parti, escludendola sulla base della carenza del minimo requisito della convivenza e della brevità della relazione- ha negato il diritto di visita della ricorrente sulla base non della insussistenza della coppia di fatto, bensì per la carenza di prova dell'instaurazione di un rapporto significativo tra la ricorrente e il cane, vista la breve relazione sentimentale che l'aveva legata al suo padrone (cfr. pagg. 21-22 della sentenza: "La coppia B. -F. non costituiva famiglia nemmeno di fatto, nè era definibile quale nucleo familiare in cui l'animale si trovava inserito. Si trattava di una relazione sentimentale molto breve che non aveva condotto le parti nemmeno alla convivenza. (...) Al di là della circostanza pacifica che la frequentazione della sig.ra F.  con il cane, nell'ambito della sua relazione sentimentale con il sig. B., si sia limitata a circa 4 mesi, l'appellata non ha provato che, nonostante il breve periodo, si sia instaurato con l'animale un rapporto tale da far presumere che le possa essere riconosciuto un diritto di visita nei confronti dell'animale").

Con il quarto motivo, la ricorrente impugna la sentenza per violazione delle norme in materia di interpretazione del contratto. La Corte, infatti, avrebbe erroneamente interpretato la transazione sottoscritta dalle parti ritenendo che la stessa, invece di disciplinare meri rapporti obbligatori, avesse ad oggetto il riconoscimento, da parte della F., del diritto di proprietà del B.  .

La censura è inammissibile per violazione del principio di specificità, avendo la ricorrente omesso di trascrivere, o allegare, il testo delle clausole contrattuali che -secondo la stessa- sarebbero state erroneamente interpretate dalla Corte distrettuale. Sul punto, merita di essere ribadito il principio secondo cui "... quando il ricorrente censuri l'erronea interpretazione di clausole contrattuali da parte del giudice di merito, per il principio di autosufficienza del ricorso, ha l'onere di trascriverle integralmente perché al giudice di legittimità è precluso l'esame degli atti per verificare la rilevanza e la fondatezza della censura" (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 2560 del 06/02/2007, Rv. 594992).

Con l'ultimo motivo, infine, la ricorrente impugna la decisione sul punto relativo al governo delle spese. Nello specifico, si duole del presunto errore della Corte che, nel liquidare le spese del secondo grado di giudizio, avrebbe liquidato somme superiori a quelle che sarebbero risultate dalla corretta applicazione dei parametri previsti dal D.M. n. 55 del 2014, in riferimento al valore della materia del contendere, e senza fornire alcuna motivazione sul punto.

La censura è fondata.

Il valore della controversia avrebbe dovuto essere parametrato alla domanda, che in prime cure aveva ad oggetto la comproprietà dell'animale e la pretesa risarcitoria dell'attrice, odierna ricorrente, mentre in appello -per effetto della mancata riproposizione del motivo di censura relativo al rigetto della ridetta domanda risarcitoria- era limitato al solo valore dell'animale. Non essendo stato quest'ultimo determinato in alcun modo, e poiché la dichiarazione di valore fatta dalle parti all'atto della redazione dell'atto introduttivo del giudizio e della sua iscrizione al ruolo, non è vincolante per il giudice, il Collegio ritiene che si sarebbe dovuto applicare, nel caso di specie, lo scaglione della tariffa allegata al D.M. n. 55 del 2014 previsto per le cause di valore indeterminabile di bassa complessità. Prendendo dunque a riferimento lo scaglione compreso tra Euro 5.000,01 ed Euro 26.000, il compenso liquidato in concreto, sia per il giudizio di primo grado che per quello di appello, la somma in concreto liquidate dal giudice di merito è eccessiva, perché superiore ai valori massimi di tariffa. La Corte di Appello ha infatti liquidato, per il doppio grado del giudizio di merito, il complessivo importo di Euro 18.000 oltre accessori.

Sul punto, va ribadito il principio secondo cui "in tema di liquidazione delle spese processuali ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, l'esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo dei parametri previsti, non è soggetto al controllo di legittimità, attenendo pur sempre a parametri indicati tabellarmente, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo in tal caso necessario che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di esso" (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 14198 del 05/05/2022, Rv. 664685). Dunque, pur non essendo il giudice di merito vincolato ai parametri stabiliti dal D.M. n. 55/2014, qualora lo stesso intenda discostarsi dagli stessi, liquidando spese superiori al massimo, o inferiori al minimo, è tenuto a fornire adeguata motivazione sulle ragioni che giustificano tale scelta. Motivazione che, nel caso di specie, non si rinviene nella decisione impugnata.

In definitiva, vanno dichiarati inammissibili i primi quattro motivi di ricorso, mentre va accolto il quinto. La sentenza impugnata va di conseguenza cassata, in relazione alla censura accolta e, non essendo necessario alcun accertamento di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi e per gli effetti di quanto previsto dall'art. 384, comma 2, c.p.c., liquidando per il giudizio di primo grado un compenso pari ad Euro 3.000 e per quello di appello un ulteriore compenso pari ad Euro 3.000, in entrambi i casi oltre accessori tutti come per legge.

Le spese del presente giudizio di legittimità, in ragione della marginalità del profilo per cui il ricorso viene accolto, vanno compensate per intero tra le parti.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibili i primi quattro motivi del ricorso ed accoglie il quinto. Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e, decidendo la causa nel merito ai sensi dell'art. 384, comma 2, c.p.c., condanna F.C. al pagamento, in favore di B.A., delle spese del giudizio di primo grado e di appello, che liquida in Euro 3.000 per ciascun grado, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.

Compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Avv. Antonino Sugamele

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