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Sentenza

Niente mantenimento all’ex moglie che sceglie di continuare a lavorare part-time pur essendo laureata. Lo afferma la prima sezione civile della Cassazione, con ordinanza n. 5242/2024, rigettando il ricorso di una donna che insisteva per il mantenimento dopo la separazione nonostante la stessa avesse deciso di lavorare part-time, pur potendo impegnarsi a tempo pieno dopo che i figli erano cresciuti e diventati maggiorenni.
Niente mantenimento all’ex moglie che sceglie di continuare a lavorare part-time pur essendo laureata. Lo afferma la prima sezione civile della Cassazione, con ordinanza n. 5242/2024, rigettando il ricorso di una donna che insisteva per il mantenimento dopo la separazione nonostante la stessa avesse deciso di lavorare part-time, pur potendo impegnarsi a tempo pieno dopo che i figli erano cresciuti e diventati maggiorenni.
Cass. I sez. civ. ordinanza 5242/24
Nella vicenda, la Corte d’appello di Venezia, come il giudice di primo grado, escludeva che la donna, peraltro assegnataria della casa coniugale, avesse diritto a un assegno di mantenimento a suo vantaggio, tenuto conto che la stessa aveva ormai la possibilità, stante l’età dei figli, di incrementare con orario pieno il proprio stipendio e di poter cogliere occasioni di avanzamento/conversione professionale destinate a migliorare il suo reddito, mettendo a frutto la laurea conseguita in costanza di matrimonio.

La donna adiva, quindi, il Palazzaccio insistendo sull’omesso esame delle risorse patrimoniali conseguite dall’ex marito a seguito della morte del genitore, lamentando che la corte non avesse valutato l’ingente patrimonio immobiliare ricevuto in eredità dall’appellato, nel considerare le sue condizioni patrimoniali, né l’apporto dato dalla stessa alla famiglia accudendo i figli in via esclusiva e il coniuge e curando l’abitazione domestica.

La decisione

Per gli Ermellini - pur essendo fondate le doglianze relative all’aumento del contributo dovuto dal padre per il mantenimento dei figli, dato il variare delle condizioni patrimoniali ed eventualmente reddituali dell’uomo conseguenti all’eredità ricevuta dopo il decesso del genitore - sotto il profilo dell’assegno all’ex moglie reputano il motivo inammissibile. “Esso, infatti – affermano - pretende di applicare i criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di divorzio (evocando espressamente la sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018) all’ambito dell’assegno di mantenimento previsto dall’art. 156 cod. civ. Il che è non solo un’evidente fuor d’opera, posto che la giurisprudenza ha sottolineato la differenza dei due istituti (chiarendo che l’assegno di separazione presuppone la permanenza del vincolo coniugale, e, conseguentemente, la correlazione dell’adeguatezza dei redditi con il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, mentre tale parametro non rileva in sede di fissazione dell’assegno divorzile, che deve, invece, essere quantificato in considerazione della sua natura assistenziale, compensativa e perequativa, secondo i criteri indicati all’art. 5, comma 6, l. 898/1970, essendo volto non alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge beneficiario alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi), ma anche un’affermazione che si pone in netto contrasto con le asserzioni della Corte distrettuale (la quale ha correttamente riconosciuto come il reddito adeguato a cui va rapportato l’assegno di mantenimento a favore del coniuge sia quello necessario a conservare tendenzialmente il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio) senza formulare alcuna precisa critica che consenta di comprendere perché, nella materia dell’assegno di separazione regolata dall’art. 156 c.c., debbano trovare ingresso i criteri previsti dall’art. 5, comma 6, l. 898/1970 per l’assegno di divorzio”.

Correttamente, sostengono da piazza Cavour, la corte d’appello ha spiegato che “il richiedente l’assegno di mantenimento è gravato dall’onere di dimostrare che la situazione in cui versa non sia ascrivibile a sua colpa, in modo che rimanga escluso che egli, pur potendo, non si sia doverosamente adoperato per reperire o migliorare la propria occupazione lavorativa retribuita in maniera confacente alle sue attitudini/capacità”.

Invero, nel caso di specie, i giudici distrettuali hanno ritenuto che la donna “si trovasse proprio in queste condizioni di colpa, perché si avvaleva ancora di un orario lavorativo parziale con stipendio ridotto, pur avendo conseguito la laurea in scienze politiche e malgrado i tre figli fossero oramai divenuti maggiorenni, e già durante li matrimonio non si era maggiormente proiettata nella realtà lavorativa”.

Da cui la corretta negazione, concludono dalla S.C. cassando la pronuncia d’appello con riferimento ai primi due motivi di ricorso e dichiarando inammissibile il terzo, dell’”esistenza di una penalizzazione professionale da riequilibrare e che l’appellante potesse porre a carico dell’altro coniuge le conseguenze della mancata conservazione dello stile di vita matrimoniale”.
Avv. Antonino Sugamele

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