"In materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare, la minore età del figlio, a favore del quale è previsto l’obbligo di contribuzione al mantenimento, rappresenta in re ipsa una condizione soggettiva di stato di bisogno, che non è esclusa per il fatto che, in virtù della elevata disponibilità economica del genitore presso il quale è collocato, il figlio non versi in reale stato di bisogno, ma goda anzi di pieno benessere ed elevato tenore di vita".
Cass. pen. 29 aprile 2019, n. 17766
L’abbandono del domicilio domestico
Quando il rapporto fra i coniugi è molto logorato non è infrequente che uno di essi lasci l’abitazione comune e si allontani dalla famiglia prima ancora che venga instaurato un procedimento per la separazione o addirittura prima ancora di aver comunicato all’altro la sua intenzione di mettere fine al matrimonio. In alcuni casi, infatti, un improvviso allontanamento è lo strumento attraverso il quale viene manifestata, per fatti concludenti, la volontà di rompere il vincolo matrimoniale.
L’allontanamento dalla casa coniugale di per sé non è sufficiente ad integrare alcuna fattispecie di reato. L’art. 570, comma 1, c.p. prevede, infatti, che l’allontanamento sia solo la modalità attraverso la quale il reo si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge o di genitore.
Dunque, perché sia integrata la fattispecie incriminatrice l’abbandono della casa coniugale deve essere accompagnato dal mancato adempimento degli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge o di genitore.
L’assistenza a cui la norma fa riferimento non ha natura materiale ed economica, ma morale ed affettiva. Attraverso la sanzione penale l’ordinamento intende salvaguardare la formazione sociale della famiglia da gravi violazioni al principio di solidarietà che deve, viceversa, caratterizzarla. Pertanto, risponde del reato di cui all’art. 570, comma 1, c.p. chi, lasciando la casa coniugale, si disinteressi completamente del coniuge e dei figli, rendendosi quindi inadempiente agli obblighi morali inerenti alla qualità di coniuge o di genitore: assistenza fisica, intellettuale, morale ed affettiva. Quindi, l’art. 570, comma 1, c.p. trova applicazione, ad esempio, nell’ipotesi in cui il genitore, allontanatosi dalla casa familiare, ometta di fare visita ai figli minori e di tenerli con sé nei periodi concordati con l’altro coniuge o stabiliti dal giudice.
Il disinteresse nei confronti dei figli integra il reato de quo solo se i figli sono minorenni.
L’art. 570, comma 1, c.p. prevede una ulteriore modalità attraverso la quale l’agente può sottrarsi agli obblighi di assistenza familiare: "serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie". La formula utilizzata dalla legge, dal contenuto incerto e indeterminato, ha portato in passato ad applicazioni assai opinabili della norma. Il riferimento alla morale delle famiglie rende la fattispecie completamente desueta. Infatti, ormai da molto tempo, questa particolare modalità di violazione degli obblighi di assistenza familiare prevista nell’art. 570, comma 1, c.p. non trova più applicazione nelle aule dei tribunali.
Le motivazioni dell’abbandono del domicilio
Perché il reato sia integrato è necessario che l’allontanamento dalla casa coniugale sia immotivato. Numerose sentenze hanno, pertanto, assolto il coniuge-imputato perché, nel caso concreto, era stata accertata la sussistenza di una giusta causa di allontanamento.
L’art. 146 c.c. espressamente prevede che la proposizione della domanda di separazione, di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, come pure la domanda di annullamento, costituisca giusta causa di allontanamento dalla residenza familiare. Dunque, a partire dal momento in cui la domanda è depositata presso la cancelleria del tribunale, l’uscita dalla casa coniugale non può più integrare il reato di cui all’art. 570, comma 1, c.p. e quindi non è necessario attendere il provvedimento presidenziale che autorizza i coniugi a vivere separati.
Non è, tuttavia, sempre necessario che sia presentato un ricorso al tribunale civile. L’uscita di casa può dirsi giustificata, infatti, anche in presenza di dinamiche o rapporti fra i coniugi che rendano intollerabile la convivenza. La giurisprudenza, allo scopo di individuare criteri certi e non opinabili, tende a fare riferimento alla disciplina contenuta nel codice civile con riguardo ai doveri che nascono dal matrimonio.
Di conseguenza, la Corte di cassazione ha più volte affermato che il reato non si integra tutte le volte in cui esistono ragioni di carattere interpersonale che non consentano la prosecuzione della vita comune (5). Pertanto, l’abbandono della casa coniugale è legittimo qualora l’altro coniuge tenga una condotta violenta o comunque oggettivamente censurabile e tale da fondare lo stato di necessità anche putativo. Non giustificano, invece, l’uscita dalla casa coniugale gli stati emotivi di chi non si senta più di condividere la quotidianità con il coniuge perché coinvolto in altre relazioni sentimentali.
Le sentenze di condanna per il reato di cui all’art. 570, comma 1, c.p. pronunciate a danno del coniuge non sono numerose e sono tutte molto risalenti nel tempo. Infatti, poiché si tratta di condotte strettamente connesse alla vita privata e alla libertà di ciascuno, i tribunali tendono ad applicare la sanzione penale con estrema cautela. Nella giurisprudenza meno risalente si rinvengono sentenze di condanna in caso di abbandono improvviso, nel quale la volontà di mettere fine al matrimonio era stata manifestata contestualmente ad un repentino e definitivo allontanamento da casa o, addirittura, per mezzo dell’allontanamento o in caso di abbandono del domicilio domestico che trovava la propria ragione nella volontà di "coltivare senza impacci di sorta una diversa relazione sentimentale" . In proposito va ricordato, però, che l’abbandono del domicilio domestico causato dall’esistenza di una relazione extraconiugale può portare ad una pronuncia di condanna solo se la violazione dell’obbligo di fedeltà è connesso ad una violazione degli obblighi di assistenza familiare inerenti alla qualità di coniuge. Diversamente, infatti, si finirebbe col sanzionare penalmente l’adulterio, malgrado la Corte costituzionale abbia abrogato, ormai da gran tempo, sia l’art. 559 c.p. che puniva l’adulterio della moglie, sia l’art. 560 che puniva il concubinato del marito .
L’omessa corresponsione dei mezzi di sussistenza
Sicuramente molto più rilevante dal punto di vista dell’applicazione pratica è la fattispecie criminosa prevista dall’art. 570, comma 2, c.p.
In considerazione dell’oggetto di questo lavoro, ci limiteremo ad esaminare la fattispecie di cui al n. 2 dell’art. 570, comma 2, c.p. con esclusivo riguardo ai figli e al coniuge.
La norma punisce il fatto di chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori di età, ovvero inabili al lavoro e al coniuge che non sia legalmente separato per sua colpa. Si tratta, dunque, di un reato di evento: la condotta dell’agente deve avere come conseguenza che i figli o il coniuge rimangano privi di mezzi di sussistenza.
Perché il reato possa dirsi integrato, non è necessario che vi sia un provvedimento dell’autorità giudiziaria civile che impone all’agente l’obbligo di versare una somma di denaro determinata. Il dovere che l’agente viola è, infatti, preesistente rispetto a qualunque provvedimento giudiziario e fonda le sue radici nei doveri di solidarietà familiare. Viceversa, qualora la condotta consista nella mancata corresponsione dell’assegno determinato dal giudice civile trova applicazione l’art. 570 bis c.p..
I soggetti tutelati sono il coniuge, anche separato - purché la separazione non gli sia stata addebitata con sentenza passata in giudicato - e i figli minori o inabili al lavoro. La norma non presta tutela, invece, al coniuge divorziato, dal momento che la solidarietà familiare è venuta meno nei suoi confronti. Costui potrà avvalersi, se del caso, della tutela prestata dall’art. 570 bis c.p., qualora sia titolare di assegno divorzile.
Per quanto riguarda la prole, la norma fa espressamente riferimento ai figli minori. Secondo la giurisprudenza consolidata, la minore età dei discendenti rappresenta in re ipsa "una condizione soggettiva dello stato di bisogno" che obbliga i genitori a contribuire al loro mantenimento, assicurando i necessari mezzi di sussistenza (15). Per tale ragione, il reato è integrato anche qualora al mantenimento della prole minore provveda in via esclusiva l’altro genitore (16): l’eventuale convincimento del genitore inadempiente di non essere tenuto, in tale situazione, all’assolvimento del suo primario dovere, non integra un’ipotesi di ignoranza scusabile di una norma di diritto, dal momento che il dovere di mantenere i figli minori corrisponde ad un’esigenza morale universalmente avvertita sul piano sociale, prima ancora che ad un obbligo giuridico.
Se nessun dubbio suscita il riferimento ai figli minori, meno chiaro è cosa si debba intendere con la locuzione figli "inabili al lavoro". Essa sicuramente ricomprende i figli affetti da invalidità che l’art. 337 septies c.c. equipara ai minori per quanto riguarda il diritto al mantenimento, a condizione che essi siano affetti da handicap grave. Meno chiaro è se tale locuzione intenda ricomprendere anche i figli sprovvisti di un lavoro. Poiché la norma penale è soggetta a regole interpretative rigide e tassative si ritiene che con il termine "inabile" non si possa intendere anche il figlio disoccupato. In questo senso è orientata la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il concetto di inabilità va inteso, in base alla definizione contenuta nella legge n. 118 del 1971, artt. 2 e 12, come totale e permanente inabilità lavorativa .
A differenza di quanto accade per l’ipotesi criminosa di cui all’art. 570, comma 1, c.p., la condotta di omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza in danno di più soggetti conviventi nello stesso nucleo familiare non configura un unico reato, bensì una pluralità di reati in concorso formale, in quanto le condotte incriminate dal comma 2 tutelano, accanto all’unità familiare, anche specifici interessi economici dei singoli.-
Poiché come già accennato, le due fattispecie contemplate, rispettivamente, nell’art. 570, comma 1 e 2, c.p. costituiscono reati autonomi, i due reati possono concorrere fra loro qualora l’agente si sottragga agli obblighi di assistenza morale di cui al comma 1 e contestualmente faccia mancare al coniuge e ai figli i mezzi di sussistenza di cui al comma 2 .
I mezzi di sussistenza
Va precisato che la definizione di "mezzi di sussistenza" - su cui è incentrata la fattispecie contemplata dall’art. 570, comma 2, n. 2, c.p. - non coincide con quella di alimenti intesi in senso civilistico, ma ha una portata più ridotta. In linea di principio, dunque, commette il reato de quo chi rifiuta o fa mancare ai congiunti quanto strettamente necessario per vivere. Per questa ragione, l’omesso pagamento dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge (21), pur potendo integrare la fattispecie criminosa di cui all’art. 570 bis c.p. , non necessariamente integra il reato di cui all’art. 570, comma 2, c.p. Infatti, l’assegno determinato in sede civile non ha necessariamente lo scopo di sopperire ad uno stato di bisogno del coniuge beneficiario.
Specularmente, chi si attenesse in maniera rigorosa a pagare la sola somma indicata dal giudice a titolo di assegno potrebbe incorrere nel reato di cui all’art. 570, comma 2, c.p. se quella somma fosse diventata, nel frattempo e per le più diverse ragioni, palesemente insufficiente a garantire l’indispensabile per vivere.
In tempi recenti la giurisprudenza della Suprema Corte ha ampliato la nozione penalistica di mezzi di sussistenza attribuendo ad essa un significato non limitato allo stretto necessario per la sopravvivenza. Del resto, la nozione di "strettamente necessario" è destinata a variare a seconda del momento storico e dei costumi. Pur confermando che i mezzi di sussistenza di cui all’art. 570 c.p. hanno una portata diversa rispetto ai mezzi di mantenimento in senso civilistico, la Suprema Corte ha finito col comprendere, accanto al vitto, all’alloggio e al vestiario - necessari per la mera sopravvivenza - anche "gli strumenti che consentano, in rapporto alle reali capacità economiche e al regime di vita personale del soggetto obbligato, un sia pur contenuto soddisfacimento di altre complementari esigenze della vita quotidiana". La giurisprudenza di merito, a sua volta, ha precisato che indispensabili a vivere non sono soltanto vitto e alloggio, ma anche gli strumenti che consentono, in rapporto alle reali capacità economiche e al regime di vita personale del soggetto obbligato, un sia pur contenuto soddisfacimento delle altre complementari esigenze della vita quotidiana come l’abbigliamento, i libri di istruzione per i figli minori, i mezzi di trasporto, i mezzi di comunicazione.
L’impossibilità ad adempiere
La giurisprudenza vaglia con severità le allegazioni difensive volte a sostenere la difficoltà dell’imputato ad adempiere all’obbligo di mantenimento a favore dei familiari. L’incapacità economica dell’obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti sanzionati dall’art. 570 c.c., deve essere assoluta e deve altresì integrare "una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti" la cui prova non è soddisfatta semplicemente allegando uno stato di formale disoccupazione dell’obbligato.
L’incapacità economica dell’obbligato deve essere, come detto, incolpevole, dal momento che l’obbligato è tenuto ad adoperarsi con tutti i mezzi a sua disposizione per adempiere la prestazione dovuta. Di conseguenza, la disoccupazione non scrimina la condotta se essa dipende anche soltanto da negligenza del soggetto obbligato.-
Le modalità con le quali provvedere al mantenimento non possono essere oggetto di libera scelta da parte dell’obbligato qualora l’autorità giudiziaria abbia imposto l’obbligo di versare una determinata somma di denaro per il mantenimento dei figli. In questo caso, pertanto, l’imputato non potrà invocare a propria difesa il fatto di avere provveduto al mantenimento della prole in maniera diretta
09-03-2024 17:06
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