La sentenza di Malaga. La Cassazione ed il riconoscimento del lavoro domestico e delle rinunce effettuate dalla ricorrente per la famiglia, con sacrificio delle aspettative reddituali nell'ottica della funzione riequilibratrice/perequativa dell'assegno di divorzio.
La vicenda spagnola. Il quotidiano spagnolo "El Paìs" il 7 marzo scorso ha pubblicato l'articolo "Una jueza obliga a un hombre a pagar 200.000 euros a su exmujer por el cuidado de sus hijas", a firma Nacho Sàncez, dove si racconta della vicenda decisa dal tribunale di primo grado di Vélez-Málaga. Nell sentenza pubblicata il 27 febbraio la giudice Laura Ruiz Alaminos ha statuito che un ex marito dovrà pagare ben 204.000 euro alla già consorte, oggi 48enne, quale compenso per il lavoro domestico svolto durante il matrimonio, durato dal 1985 al 2020. La togata malaghese ha pure condannato l'uomo a corrispondere un assegno di 500 euro al mese per i prossimi due anni, in favore della donna, oltre ad altri due, pari rispettivamente a 400 e 600 euro, in favore delle figlie di 14 e 20 anni, al contempo facendo carico entrambe le parti di sostenere la metà delle spese straordinarie per le figlie. L'esito della causa ha preso evidentemente atto della florida carriera professionale dell'uomo, che nel corso dei cinque lustri matrimoniali ha aperto palestre (dove la donna aveva peraltro lavorato per alcuni periodi senza essere mai stata pagata) e aziende, oltre ad aver rilevato un'azienda olivicola. Il tutto mentre la consorte si occupava della casa e delle figlie.
Nell'articolo viene spiegato che, in virtù del regime di separazione dei beni previsto dal diritto spagnolo, lui ha mantenuto tutti i suoi beni, mentre lei solamente la metà di un'abitazione di cui i coniugi condividevano la proprietà. La sentenza ha riconosciuto la cifra di poco superiore ai 204.000 euro, a carico dell'ex marito, in forza dell'articolo 1438 del codice civile spagnolo, il quale statuisce che i coniugi concorrono al mantenimento degli oneri del matrimonio e, in mancanza di accordo, lo devono fare in proporzione alle rispettive risorse economiche, mentre i lavori per la casa devono essere computati come contributo alle spese, e danno diritto a ottenere un'indennità che il giudice deve indicare, in mancanza di accordo, all'estinzione del regime di separazione.
Cassazione civile sez. I, 16/01/2023, (ud. 24/11/2022, dep. 16/01/2023), n.1153
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto - Presidente -
Dott. MELONI Marina - Consigliere -
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro - Consigliere -
Dott. PAZZI Alberto - Consigliere -
Dott. FIDANZIA Andrea - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 4144/2021 R.G. proposto da:
D.L.C., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la
CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli
avvocati MANILDO SILVIA ((Omissis)), CECCHELLA CLAUDIO ((Omissis));
- ricorrente -
contro
V.P., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la
CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso
dall'avvocato GALLINA MORENO ((Omissis));
- controricorrente -
avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO VENEZIA n. 3031/2020 depositata
il 23/11/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24/11/2022
dal Consigliere ANDREA FIDANZIA.
Fatto
FATTI DI CAUSA
La Corte d'Appello di Venezia, con sentenza n. 3031/2020, depositata in data 23.11.2020, nel giudizio di divorzio pendente tra D.L.C. e V.P., ha rigettato sia l'appello principale proposto dalla D.L. che l'appello incidentale proposto dal V., confermando l'assegno divorzile posto a carico di quest'ultimo, e in favore della ex moglie, nella misura di Euro 200,00 mensili, nonché fissando sempre a carico del V. il contributo per il mantenimento di ciascun figlio in Euro 200,00 mensili.
La Corte d'Appello di Venezia ha ritenuto giustificata sia la riduzione dell'assegno divorzile, sia del contributo al mantenimento di ciascun figlio, per avere il V. subito una drastica riduzione delle entrate in conseguenza della diminuzione della retribuzione lorda annuale da circa 185.000,00 ad Euro 70.000,00 e in conseguenza della suddivisione dei tempi di permanenza dei figli presso i genitori in misura paritaria.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione D.L.C. affidandolo a sei motivi.
V.P. ha resistito in giudizio con controricorso.
La ricorrente ha depositato la memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5 per omesso riconoscimento del lavoro domestico e delle rinunce effettuate dalla ricorrente per la famiglia, con sacrificio delle aspettative reddituali nell'ottica della funzione riequilibratrice/perequativa dell'assegno di divorzio.
Deduce la ricorrente che la Corte d'Appello avrebbe escluso che il lavoro casalingo dalla stessa prestato e la sua rinuncia ad un'attività lavorativa per dedicarsi alla famiglia possa aver assunto valenza quale effettivo contributo personale alla conduzione familiare, così negando un assegno di importo adeguato alla sua funzione riequilibratrice/perequativa.
2. Il motivo è inammissibile.
Va osservato che la Corte d'Appello ha riconosciuto l'apporto fornito dalla ricorrente al menage familiare attribuendo espressamente all'assegno divorzile determinato a carico del V. una funzione perequativo-compensativa. In ordine al quantum, la Corte d'Appello ha evidenziato che, per valutare gli oneri economici sostenibili dall'obbligato, si deve partire dal presupposto che dal mese di maggio 2018 la retribuzione mensile di quest'ultimo è sostanzialmente dimezzata e che lo stesso continua sostenere interamente la rata del mutuo di Euro 960,00 della casa familiare in comproprietà dei coniugi e abitata dalla D.L. e dai figli. Inoltre, la Corte di Appello, nella determinazione del quantum debeatur dell'assegno divorzile, ha valorizzato, altresì, la circostanza che i tempi di permanenza dei figli presso ciascun genitore sono quasi equiparati e che quindi il V. contribuisce direttamente al mantenimento dei figli per tutti i giorni in cui rimangono presso la sua abitazione.
Non vi è dubbio che la valutazione in fatto compiuta dalla Corte di Appello nella concreta determinazione dell'assegno stabilito in funzione perequativo-compensativa non sia sindacabile in sede di legittimità, essendo, peraltro, tale valutazione sorretta da una motivazione ampia ed immune da vizi logici, unico profilo eventualmente sindacabile in questa sede, seppur nei ristretti limiti di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (come interpretato dalle S.U. di questa Corte nella sentenza n. 8053/2014), vizio comunque non dedotto dalla ricorrente.
3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione ed erronea applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5 per non essere stata riconosciuta la funzione assistenziale dell'assegno di divorzio.
Deduce la ricorrente di non essere economicamente autonoma e ciò per ragioni oggettive legate alle (im)possibilità effettive di trovare un'occupazione, considerata l'età ed il mercato del lavoro.
4. Il motivo è inammissibile.
La Corte d'Appello ha condiviso l'impostazione del Tribunale di escludere la natura assistenziale dell'assegno divorzile assegnato alla ricorrente, ritenendo che, nonostante le oggettive difficoltà di trovare un'occupazione per l'età (50 anni) e per la lontananza per molti anni dal mondo del lavoro, la stessa sia comunque dotata di capacità lavorativa ed abbia qualifiche professionali, ma è rimasta colposamente, a lungo, inerte nel cercarsi un'occupazione, soprattutto nei primi due anni dalla pronuncia sullo status.
Anche tale valutazione di fatto non è sindacabile in sede di legittimità, né è stato neppure dedotto dalla ricorrente un vizio di motivazione (men che meno nei termini sopra illustrati).
5. Con il terzo motivo è stato dedotto l'omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 sul rilievo che la Corte d'Appello ha rigettato la richiesta di aumento dell'assegno divorzile, non considerando che la D.L. ha cercato un lavoro, ma senza esito.
6. Il motivo è inammissibile.
La ricorrente non fa che svolgere censure di merito, in quanto finalizzate a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti ed una differente valutazione delle prove rispetto a quella operata dalla Corte d'Appello.
Peraltro, la ricorrente, per supportare la propria ricostruzione dei fatti, richiama documenti allegati agli atti difensivi prodotti nel giudizio di primo grado, rispetto ai quali neppure allega che siano stati fatti valere anche nel giudizio di appello, con conseguente genericità delle sue deduzioni.
7. Con il quarto motivo è stato dedotto l'omesso esame di fatto decisivo ai fini della valutazione della capacità reddituale del V., sul rilievo che la Corte d'Appello ha omesso di considerare le vendite degli immobili dallo stesso acquisiti per successione ereditaria - elemento che era stato, invece, preso in esame dal Tribunale di Treviso con un espresso richiamo contenuto a pag. 16 della sentenza n. 730/2020 (vedi pagg. 15 e 16 del ricorso) - nonché l'effettivo reddito dell'ex marito.
8. Il motivo è inammissibile.
La valutazione del profilo delle intervenute vendite degli immobili di proprietà del V. non è stato omessa dalla Corte d'Appello, che ha riportato espressamente la relativa censura a pag. 7 della sentenza impugnata. D'altra parte, se è pur vero che nel percorso argomentativo della sentenza impugnata non è stato fatto esplicito riferimento a tali immobili, la piena condivisione da parte del giudice d'appello dell'impostazione del primo giudice che, per stessa ammissione della ricorrente, tale aspetto aveva considerato, esclude il fondamento della predetta censura. La piena condivisione da parte della Corte territoriale della valutazione in fatto operata dal giudice di primo grado emerge anche nel seguente passaggio contenuto a pag. 14 della sentenza impugnata, nel quale la Corte d'Appello evidenzia che "il bilanciamento tra le diverse circostanze appare essere stato individuato dal Giudice di primo grado in misura congrua per evitare che si costituisca una rendita di posizione..".
Quanto al profilo del reddito effettivo (la ricorrente deduce che la retribuzione lorda di Euro 70.000,00 dà luogo ad un reddito netto annuo di Euro 42.695,00, pari ad Euro 3.500,00 mensili, e non Euro 2.400,00 mensili come affermato dalla Corte d'Appello), non vi è dubbio che la ricorrente denunci un errore di fatto, percettivo in cui sarebbe incorsa la Corte d'Appello, vizio che avrebbe allora dovuto essere fatto valere con lo strumento processuale della revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 4 e non con il ricorso per cassazione.
9. Con il quinto motivo è stata dedotta la violazione dell'art. 337 ter c.c., comma 4 in relazione ai profili della quantificazione del contributo al mantenimento dei figli e della ripartizione delle spese straordinarie.
La ricorrente contesta che i tempi di permanenza dei due figli presso i genitori siano effettivamente paritari, reitera le proprie censure, già svolte nei precedenti punti, in ordine alle reali risorse economiche di entrambi i genitori e all'effettivo reddito del V..
10. Il motivo è inammissibile.
La ricorrente, anche in questo motivo, sollecita una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella operata dalla Corte di Appello, svolgendo quindi censure che non sono consentite in sede di legittimità.
11. Con il sesto motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., per avere la Corte d'Appello condannato la ricorrente al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio (nella misura della metà) anziché aver compensato tali spese.
12. Il motivo è inammissibile.
Va osservato che è principio consolidato di questa Corte di legittimità che il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell'opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell'ipotesi di soccombenza reciproca, quanto nell'ipotesi di concorso con altri giusti motivi, sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti. (vedi Cass. n. 19613 del 04/08/2017).
Nel caso di specie, questa Corte non può dunque sindacare la decisione del giudice di merito di condannare la parte, che sia risultata incontestabilmente soccombente sulla propria domanda, al pagamento di metà delle spese sostenute dall'altra.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
PQM
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 3.200, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, il 24 novembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2023
24-03-2023 14:31
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