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Sentenza

L'ex moglie cammina, va in bici e guida quindi trovandosi in buone condizioni fisiche può trovare un lavoro. Revocato l'assegno divorzile.-  Peraltro un'agenzia investigativa aveva svolto indagini da cui era emerso che la donna, pur avendo ufficialmente dato le dimissioni, continuava a lavorare quotidianamente nello studio di commercialista in cui era inquadrata, fino a poco tempo prima, come dipendente.
L'ex moglie cammina, va in bici e guida quindi trovandosi in buone condizioni fisiche può trovare un lavoro. Revocato l'assegno divorzile.- Peraltro un'agenzia investigativa aveva svolto indagini da cui era emerso che la donna, pur avendo ufficialmente dato le dimissioni, continuava a lavorare quotidianamente nello studio di commercialista in cui era inquadrata, fino a poco tempo prima, come dipendente.
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 26 novembre 2020 – 25 febbraio 2021, n. 5077
Presidente Scaldaferri – Relatore Valitutti

Fatti di causa

1. Con sentenza non definitiva n. 1205/2012, il Tribunale di Lucca pronunciava la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto in Camaiore (Lucca), in data 6 luglio 1996, da Lu. Ce. e da Si. Pe.. Con successiva sentenza definitiva n. 754/2017, il Tribunale affidava il figlio minore Ni. ad entrambi i genitori, con collocazione presso la madre, e stabiliva a carico del padre la somma mensile di Euro 500,00, quale assegno di mantenimento del figlio minore, e di Euro 400,00 mensili, quale assegno divorzile a favore della Pe..
2. Con sentenza n. 1064/2018, depositata il 15 maggio 2018, la Corte d'appello di Firenze - per quel che ancora rileva in questa sede - rigettava l'appello incidentale della Pe., diretto ad ottenere la revoca dei provvedimenti ex art. 709 ter cod. proc. civ., emessi nei suoi confronti, nonché un aumento dell'assegno divorzile. La Corte accertava, inoltre, accogliendo parzialmente l'appello principale del Ce., che la appellata non aveva diritto ad alcun assegno divorzile. Le spese processuali dei due gradi di giudizio venivano poste a carico della Pe..
3. Per la cassazione di tale provvedimento ha, quindi, proposto ricorso Si. Pe. nei confronti di Lu. Ce. e del P.G. presso la Corte
d'appello di Firenze, affidato ad un solo motivo. La Ce. ha replicato con controricorso. L'intimata Procura Generale non ha svolto attività difensiva.

Ragioni della decisione

1. Con l'unico motivo di ricorso, Si. Pe. denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 5 della legge n. 898 del 1970, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.
1.1. Si duole la ricorrente che il giudice di appello abbia ritenuto decisive -ai fini della revoca dell'assegno divorzile - le risultanze delle investigazioni difensive in atti, in realtà non circostanziate, e perciò non idonee a comprovare l'esistenza del rapporto di lavoro della ricorrente. Lamenta, inoltre, la istante che la Corte abbia fondato la decisione sulle risultanze della disposta c.t.u., che avrebbe, peraltro, omesso di considerare le certificazioni mediche depositate in atti e comprovanti che la patologia, di cui è portatrice la Pe., impediva alla medesima la regolare prestazione di un'attività lavorativa.
1.2. Il motivo è inammissibile.
1.2.1. Va osservato che è inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando il ricorrente, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass., 04/04/2017, n. 8758). Con il ricorso per cassazione - anche se proposto con riferimento all'art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. - la parte non può, invero, rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito, poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (Cass., 07/12/2017, n. 29404; Cass., 04/08/2017, n. 19547; Cass., 02/08/2016, n. 16056).
1.2.2. Nel caso concreto la sentenza impugnata ha ampiamente ad/I adeguatamente motivato la decisione della Corte di non riconoscere alla Pe. alcun assegno di mantenimento, attesa la sua piena capacità lavorativa, desunta dalle indagini investigative - disposte dal Ce. e versate in atti -, dalle quali è emerso che, anche dopo le formali dimissioni della Pe. dallo studio di un commercialista, avvenute nell'anno 2010, la medesima ha continuato a prestare di fatto attività lavorativa presso tale studio, nell'arco temporale che va dal 2011 in poi. La Corte territoriale ha, altresì, assolutamente escluso che la istante si trovi «in condizioni di salute tali da precluderle di lavorare (potendo tranquillamente camminare, guidare e persino andare in bicicletta)».
1.2.3. Orbene, a fronte di tali motivate argomentazioni del giudice di appello, la censura proposta si limita ad una - peraltro assolutamente generica, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso (artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ.) - allegazione circa la non concludenza delle suddette indagini investigative, poiché «non circostanziate», nonché sulla mancata considerazione, da parte del c.t.u., e di conseguenza del giudicante di secondo grado, delle certificazioni mediche che comproverebbero la sua inabilità al lavoro. E tuttavia - anche a prescindere dalla considerazione che siffatta generica allegazione si pone in palese contrasto con l'accertamento fattuale in concreto operato dalla Corte di merito, sulle base delle risultanze delle indagini investigative in atti - va rilevato che la istante non indica in alcun modo, né il contenuto di dette certificazioni sanitarie, né il passaggio della relazione peritale, nella quale il c.t.u. avrebbe accertato la capacità lavorativa della Pe., omettendo di considerare, «arbitrariamente e senza motivazione alcuna, le certificazioni mediche depositate in giudizio». Del tutto generico è, infine, il riferimento al contributo alla formazione del patrimonio familiare operato dalla ricorrente, la cui sussistenza soltanto, laddove dimostrata in concreto, avrebbe potuto fondare il diritto all'assegno divorzile, sotto il profilo perequativo-compensativo, messo in luce dalla recente giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. U., 11/07/2018, n. 18287; Cass., 23/01/2019, n. 1882).
2. Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente, in favore del controricorrente, alle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 2.200,00 di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese forfettarie e accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13. Dispone, ai sensi del d.lgs. n. 196 del 2003, art. 52, che in caso di diffusione della presente ordinanza si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
Avv. Antonino Sugamele

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