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Sentenza

Figlio quasi 40enne e ancora iscritto all'Università: l'assegno di mantenimento va confermato?
Figlio quasi 40enne e ancora iscritto all'Università: l'assegno di mantenimento va confermato?
Cass. civ., sez. I, ord., 15 dicembre 2021, n. 40283

Presidente Genovese – Relatore Falabella

Fatti di causa

1. - Il Tribunale di Nuoro ha dichiarato la separazione tra i coniugi B.V. e S.M. ; ha assegnato la casa coniugale a quest'ultima, convivente col figlio F. , maggiorenne ma economicamente non autosufficiente, perciò destinatario di un assegno di mantenimento di Euro 150,00 mensili, posto a carico del padre.

2. - La pronuncia è stata confermata dalla Corte di appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, con sentenza pubblicata il 19 settembre 2017.

3. - Ricorre per cassazione, con due motivi, B. , il quale ha pure depositato memoria. S.M. resiste con controricorso.

Ragioni della decisione

1. - Col primo motivo sono denunciate la violazione e la falsa applicazione degli artt. 147 e 148 c.c., in riferimento all'obbligo del genitore separato di concorrere al mantenimento del figlio maggiorenne non laureato e non economicamente indipendente in ragione delle sue condizioni di fragilità psicologica; è altresì lamentata l'"(e)rronea violazione in merito al percorso di studi compiuti dal medesimo". Il ricorrente rileva, in sintesi, che le problematiche di tipo psicologico del figlio non appaiano di gravità tale da precludere allo stesso l'ultimazione del percorso formativo, "costituendo altrimenti un indicatore d'inerzia colpevole non più tutelabile, perché contrastante con il principio di autoresponsabilità che è legato alle scelte esistenziali della persona, anche tenuto conto dei doveri gravanti sui figli adulti, specie quando risultino sui iuris a tutti gli effetti".

Il secondo mezzo oppone la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e l'erronea interpretazione delle risultanze documentali. Si assume che l'esigenza, individuata dalla Corte di appello, di un protrarsi della contribuzione del padre al mantenimento del figlio maggiorenne risulterebbe indimostrata e anzi smentita dalla certificazione acquisita agli atti, la quale attesterebbe un semplice ritardo psicomotorio, non associato ad alcuna forma di insufficienza o disabilità cognitiva che "penetri nella sfera delle patologie di una certa serietà e valga perciò ad escluderne la possibilità per F. di superare tutti gli esami, di preparare la tesi e di conseguire un titolo di studio". Il giudice distrettuale, in altri termini, non avrebbe "dovuto nè potuto riconoscere uno stato di necessità assistenziale permanente, e con esso la sussistenza dei presupposti giustificativi dell'assegno di mantenimento".

2. - I due motivi sono inammissibili.

La Corte di appello ha osservato come la situazione del figlio della coppia, il quale, privo di redditi, al momento della pronuncia della sentenza aveva 35 anni ed era ancora iscritto all'università, benché fosse quasi quattro anni fuori corso, aveva una spiegazione documentata in giudizio attraverso certificati che davano conto di un ritardo nell'apprendimento correlato a problemi insorti al momento della nascita: problemi che avevano condizionato il percorso scolastico di F. , il quale si era infatti diplomato all'età di 24 anni, e dei quali il padre era pienamente edotto (almeno fino al momento della separazione). Ha aggiunto la nominata Corte: "Pertanto, l'attuale condizione di F. non appare riconducibile ad una indolenza del medesimo, o al rifiuto di svolgere una prestazione lavorativa, quanto alla patologia perinatale che ha reso e rende difficoltoso ciò che per altre persone non lo è, sì che permane l'obbligo di mantenimento del figlio".

Deve premettersi che, come è noto, l'obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli, secondo le regole degli artt. 147 e 148 c.c., non cessa, ipso facto, con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un'attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato dello stesso (Cass. 26 settembre 2011, n. 19589; allo stesso modo, nel senso che l'obbligo di mantenimento non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio, ma perdura finché il genitore interessato non dia prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero è stato posto nelle concrete condizioni per potere essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta, cfr. ad es.: Cass. 8 febbraio 2012, n. 1773; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1830; Cass. 17 novembre 2006, n. 24498). La cessazione dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere poi fondata su di un accertamento di fatto che abbia riguardo all'età, all'effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all'impegno rivolto verso la ricerca di un'occupazione lavorativa nonché, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta, dal raggiungimento della maggiore età, da parte dell'avente diritto (Cass. 5 marzo 2018, n. 5088; Cass. 22 giugno 2016, n. 12952).

La pronuncia impugnata si è conformata a tali principi e le censure svolte nei due motivi di impugnazione si risolvono in altrettante incursioni all'interno dell'area dell'accertamento di fatto, che è preclusa al sindacato di legittimità.

Quanto al primo mezzo, occorre infatti ricordare che il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, ricorre (o non ricorre) a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione (e, cioè, del processo di sussunzione), rilevando solo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata, dovendo il ricorrente, in ogni caso, prospettare l'erronea interpretazione di una norma da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata ed indicare, a pena d'inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4, i motivi per i quali chiede la cassazione (Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007 n. 22348). In particolare, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 76110; Cass. 4 aprile 2013, n. 8315).

Con riguardo al secondo motivo, le deduzioni svolte non sono deducibili in questa sede non hanno attinenza con la denunciata scorretta applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.. Infatti, per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall'art. 116 c.p.c.. La doglianza circa la violazione di quest'ultima norma è del resto ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo "prudente apprezzamento", pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. Sez. U. 30 settembre 2020, n. 20867).

È quasi superfluo aggiungere, poi, che all'art. 360 c.p.c., è del tutto estraneo il vizio di erronea interpretazione delle prove, fatto valere dal ricorrente con entrambi i motivi di ricorso.

3. - Il ricorso è in conclusione inammissibile.

4. - Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte;

dichiara inammissibile il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.

Oscuramento dei dati personali.
Avv. Antonino Sugamele

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