Assegno divorzile.
Cassazione Civile, Sez. I, 26 gennaio 2018, n. 2042 .
Svolgimento del processo
Con ricorso in data 23.1.2009, P.M. chiedeva al Tribunale
di Pistoia di dichiarare cessati gli effetti civili
del matrimonio contratto con S.M.
Costituitasi, la S. non si opponeva alla domanda di divorzio,
ma chiedeva determinarsi un assegno di Euro 500,00
mensili, oltre ad una quota diTFRgià percepita dal marito.
Il Tribunale, con sentenza in data 14.11.2012, dichiarava
cessati gli effetti civili del matrimonio, e rigettava la
domanda di assegno e di quota del TFR, ritenendo equivalente
la situazione economica dei coniugi.
Proponeva appello la S. Costituitosi, il P. chiedeva dichiararsi
inammissibile o improcedibile e rigettarsi nel merito
l'appello, considerata la condizione economica equivalente
dei coniugi.
La Corte d'Appello di Firenze, con sentenza in data
17.10.2013, rigettava l'appello.
Ricorre per cassazione l'appellante.
Resiste con controricorso l'appellato che pure propone
ricorso incidentale.
Le parti hanno depositato memorie difensive.
Assegnata la causa alla sezione sesta civile, il Collegio
la rimetteva alla sezione prima civile. L'udienza pubblica
di discussione si teneva il 10.10.2017. Il Collegio
si riconvocava per la camera di consiglio del
17.10.2017, nella quale assumeva la presente
decisione.
Motivi della decisione
Va preliminarmente osservato che il P.G. ha chiesto la
rimessione della causa alle sezioni unite di questa
Corte, ai sensi dell'art. 374 c.p.c., comma 3, per cui
se la sezione semplice ritiene di non condividere un
principio di diritto enunciato dalle sezioni unite,
rimette ad esse, con ordinanza motivata, la decisione
del ricorso. Tale richiesta viene giustificata, in relazione
ad alcune pronunce fortemente innovative della
prima sezione civile, in materia di assegno di divorzio,
recentemente assunte.
Ritiene la Corte di non accogliere l'istanza.
La predetta norma, introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, va
considerata disposizione di natura ordinamentale più che
processuale, nonostante sia contenuta nel codice di rito
civile, in quanto disciplina i rapporti interni tra sezioni
nell'ambito del medesimo organo giudiziario. Ma proprio
tale natura, a parere del Collegio, rende operativa la
disposizione solo per i principi affermati dalle Sezioni
Unite, dopo la sua entrata in vigore, e non per quelli,
come nella specie, enunciati anteriormente, per i quali
permane il profilo di grande autorevolezza dell'insegnamento
delle Sezioni Unite, il punto più alto nella interpretazione
e nella nomofilachia, ma non vincolante per le
sezioni semplici.
Né si potrebbe affermare che l'art. 374 c.p.c., comma 3, si
applichi se, come nel caso che ci occupa, il principio
affermato dalle Sezioni Unite (sentenze nn. 11490 e
11492 del 1990) in materia di assegno di divorzio, sia
stato da allora seguito costantemente nella successiva
giurisprudenza delle sezioni semplici. La predetta norma
si riferisce solo al pronunciamento delle Sezioni Unite,
essendo del tutto ininfluente che il principio sia stato o
meno seguito nel prosieguo.
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta vizio di
nullità della sentenza per mancanza e contraddittorietà
della motivazione, affermando che la Corte di merito,
da un lato, sostiene l'assenza di prova del tenore di vita
pregresso tra i coniugi, dall'altro, l'impossibilità, con la
crisi familiare, di mantenere tale pregresso tenore di
vita. Esamina poi le condizioni economiche dei
coniugi, ritenendo la sussistenza di errori ed omissioni
del giudice a quo, e si sofferma in particolare sulla
somma a suo dire riconosciutole a titolo di mantenimento
in sede di separazione. Richiama infine l'esistenza
di una relazione amorosa del marito, nonché il
contributo dato da essa stessa alla vita familiare.
Con il secondo lamenta violazione della L. n. 898 del
1970, artt. 5 e 6 e successive modifiche, sui presupposti
dell'assegno di divorzio.
Con il terzo, omesso esame di un fatto decisivo per il
giudizio, oggetto di discussione tra le parti. La ricorrente
contesta l'affermazione della sentenza per cui nessuna
prova sarebbe stata fornita dall'appellante sul tenore di
vita pregresso e sull'effettivo reddito da essa goduto. Analizza
quindi le posizioni economiche dei coniugi, a suo dire
assai più vantaggiose per il marito.
Con il primo e il secondo motivo, il controricorrente e
ricorrente incidentale lamenta l'inammissibilità del
ricorso in appello, da un lato, per mancata indicazione
delle parti del provvedimento impugnato e delle modifiche
richieste alla ricostruzione dei fatti, compiuta dal
giudice di primo grado”, dall'altro, per omessa indicazione
delle circostanze da cui deriva la violazione di legge e della
loro rilevanza ai fini della decisione impugnata (art. 342 c.
p.c., nn. 1 e 2).
Va dapprima considerato, per ragioni sistematiche, il
ricorso incidentale, che va rigettato.
Come aveva precisato il giudice a quo, il ricorso in appello
indica, nel contesto, le parti impugnate, le motivazioni del
gravame, le proprie richieste alla Corte di Appello (il
riconoscimento di un assegno di divorzio e di una quota
del 40% del TFR, percepito dal P.) con l'indicazione dei
presupposti di legge che possono giustificarle.
I motivi del ricorso principale possono essere trattati
congiuntamente, stante la stretta connessione.
Il Collegio condivide pienamente il nuovo orientamento
introdotto dalla sentenza n. 11504 del 2017, ormai consolidato
con varie pronunce conformi; si richiama quindi
alla predetta sentenza e alle argomentazioni che la
sorreggono.
Pare opportuno, per comprendere meglio il senso del
nuovo indirizzo giurisprudenziale, fornire qualche breve
cenno, in prospettiva storica.
Come è noto, la L. n. 898 del 1970, sul divorzio, estranea al
Codice Civile che non va dimenticato - all'epoca conteneva
l'originaria disciplina, caratterizzata dalla netta preminenza
del marito nel governo della famiglia, cui
corrispondevano due status (complesso di diritti e doveri)
totalmente differenti per il marito e la moglie. Basti
ricordare che l'art. 143 c.c. prevedeva che il marito somministrasse
alla moglie tutto quanto necessario ai bisogni
della vita, in proporzione alle sue sostanze (anche paradossalmente,
quando la moglie fosse più facoltosa di lui);
alla moglie spettava mantenere il marito soltanto se questi
non avesse mezzi sufficienti. La separazione giudiziale si
pronunciava solo per colpa di uno o di entrambi i coniugi;
il coniuge incolpevole conservava la propria condizione
personale e patrimoniale.
Nella originaria legge di divorzio, su un piano comunque di
totale parità, si precisava che il Tribunale disponeva
assegno periodico, tenuto conto delle condizioni economiche
dei coniugi e delle ragioni della decisione, a favore
di un coniuge, in proporzione alle sostanze e ai redditi
dell'altro; nella determinazione, il giudice teneva conto
del contributo personale ed economico dato da ciascuno
alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio
di entrambi.
Fu la riforma generale del diritto di famiglia del 1975 ad
introdurre il profilo della inadeguatezza dei mezzi nel
regime di separazione. E tale principio passò quasi inalterato
nella riforma del divorzio (L. n. 74 del 1987),
aggiungendosi la previsione dell'impossibilità di procurarsi
tali mezzi per ragioni oggettive. Si è distinto nettamente
il momento dell'ammissibilità dell'assegno, da
quello della sua quantificazione, e infatti, in ordine a
questa, vengono in considerazione ulteriori profili: le
condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo
personale ed economico dato da ciascuno alla
conduzione familiare e alla formazione dei patrimoni
personali dei coniugi stessi comune, e di quello comune.
Il reddito di entrambi e la durata del matrimonio.
Tale rigorosa distinzione fu affermata costantemente nell'interpretazione
di questa Corte (tra le altre, Cass. n. 2156
del 2010), e tuttavia l'inadeguatezza dei mezzi fu ricollegata,
dopo alcune incertezze iniziali, con le note sentenze
delle Sezioni Unite n. 11490 e 11492 del 1990. al mantenimento
del tenore di vita assunto durante la convivenza
matrimoniale (anche se la lettera della norma non vi
faceva riferimento alcuno e la ratio palese di essa poneva,
come si diceva, una netta distinzione tra le condizioni
economiche e sociali dei coniugi e l'inadeguatezza dei
mezzi del coniuge richiedente l'assegno).
L'affermazione, contenuta nelle sentenze predette, fu condotta
dalla giurisprudenza successiva ad estreme conseguenze,
vincolandola ad aspettative più o meno
automatiche (per cui l'assegno doveva risultare più elevato,
in relazione all'evoluzione della carriera lavorativa
dell'obbligato, posteriore alla convivenza matrimoniale,
ove prevedibile, e, addirittura, poteva ulteriormente
accrescersi dopo il divorzio, sempre con riferimento a
tale evoluzione lavorativa) (tra le altre, Cass. n. 11870
del 2015).
Ancora, in aperta violazione della lettera e dello spirito
della norma, si effettuavano commistioni tra le due parti
distinte della disposizione, e la valutazione delle condizioni
economiche e sociali dei coniugi, inerenti al quantum,
veniva sempre più ad interferire sull'an, sostenendosi
che il tenore di vita, ove non fosse oggetto di prova
specifica, poteva desumersi proprio dalla comparazione
tra le condizione dei coniugi (del resto ci si rendeva
conto che il tenore di vita, almeno nella sfera dell'obbligato,
necessariamente diminuiva, con la separazione e il
divorzio e l'esclusione delle opportune economie collegate
alla convivenza familiare) (tra le altre, Cass. n. 2156 del
2010).
Il nuovo indirizzo propone un criterio differente e, a parere
del collegio, assai più consono alla lettera e alla ratio
dell'art. 5, comma 6, che nella prima fase sull'an non
prevede - conviene ribadirlo - nessuna comparazione
delle condizioni economiche dei coniugi e non fa riferimento
alcuno al tenore di vita pregresso, orientando
l'indagine alla sola situazione del coniuge richiedente,
senza alcun riferimento, in questa fase, a quella dell'altro
coniuge.
Èappena il caso di precisare, a tal proposito, che la predetta
espressione (tenore di vita) si rinviene nello stesso art. 5,
comma 9, disposizione palesemente processuale, ove si
precisa che i coniugi, all'udienza presidenziale, presentano
le dichiarazioni dei redditi ed altra documentazione sul
loro patrimonio; in caso di contestazione, potranno essere
effettuate indagini sui redditi. sui patrimoni e sull'effettivo
tenore di vita di ciascun coniuge. Dunque il tenore di vita
non è quello comune,maquello di ciascun coniuge e viene
in considerazione al momento dell'assunzione dei provvedimenti
provvisori, quando la documentazione, contestata,
appaia infedele, e ciò dia luogo ad indagini al
riguardo.
La sentenza n. 11504 del 2017, confermata dal successivo
orientamento, indica dunque un diverso parametro assai
più rispettoso, come si diceva, della lettera e della ratio
dell'art. 5: l'indipendenza o l'autosufficienza del soggetto
(più condivisibile il termine di autosufficienza che
riguarda esclusivamente il soggetto richiedente, mentre
l'indipendenza (da chi, da che cosa?) potrebbe ancora una
volta richiamare la comparazione con l'ex coniuge
obbligato).
La sentenza suindicata richiama la posizione dei figli
(ovviamente dentro e fuori del matrimonio: destinatari
del mantenimento, se minori, ma pure maggiorenni fino
alla raggiunta autosufficienza economica). Certo qualcuno
potrebbe opporre che il paragone non ha alcun
senso, perché i figli potrebbero utilizzare la forza e l'entusiasmo
della loro gioventù, per raggiungere al più presto
l'autosufficienza (anche se purtroppo le statistiche sull'occupazione
giovanile danno ancora oggi segnali assai sconfortanti),
mentre non è tale il coniuge (in genere la donna)
che non ha mai lavorato o magari ha cessato di lavorare
durante il matrimonio (ma, ancora, dalle statistiche più
aggiornate, emerge che questa condizione è assai più rara
che in passato).
Qui sopperisce peraltro la seconda parte della predetta
norma, che assai significativamente non sussiste in sede di
separazione (il soggetto non ha mezzi adeguati e non può
procurarseli per ragioni oggettive), e in tal caso continuerà
ad operare la giurisprudenza pregressa di questa Corte (non
solo ragioni di salute, ma anche di età, inidoneità ad
inserirsi nel mercato di lavoro, mancanza di attività pregressa,
di specializzazione, ecc.) (tra le altre Cass. n. 3838
del 2006 e n. 27234 del 2008). E la sentenza più volte
indicata, n. 11504, individua l'autosufficienza economica
in alcuni specifici parametri, cui dovrebbe richiamarsi la
giurisprudenza di merito, che avrà il compito di adeguarli
alla concreta fattispecie dedotta: il possesso di redditi di
qualsiasi specie, di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari,
tenuto conto di tutti gli oneri imposti e del costo
della vita nel luogo di residenza; le capacità e le possibilità
effettive di lavoro personale; la stabile disponibilità di una
casa di abitazione, salvo ovviamente altri elementi che
potranno rilevare nelle singole fattispecie.
Come si vede, le variabili sono molte numerose per un
adeguamento il più possibile efficace alla situazione concreta.
In tal senso, si potrebbe fin d'ora escludere pericolosi
automatismi (ad es. multipli della pensione sociale o
simili) che renderebbero autosufficienza o non autosufficienza
identiche sempre a se stesse ed uguali per tutti. Il
coniuge richiedente l'assegno non può riguardarsi come
una entità astratta, ma deve considerarsi come singola
persona nella sua specifica individualità.
Per di più, una volta superato il vaglio dell'ammissibilità
dell'assegno ed accertata la non autosufficienza economica,
sicuramente potrebbero venire in considerazione i
vari profili indicati dalla norma per la quantificazione
dell'assegno, tali eventualmente da condurre ad una elevazione
dell'importo.
Va precisato che, con il divorzio, cessa ogni rapporto
personale e patrimoniale tra gli ex coniugio permanendo
ovviamente una stretta collaborazione, nell'esercizio congiunto
della responsabilità genitoriale, se vi sono figli
minori, ma ciò non attiene al rapporto tra gli ex coniugi.
Tuttavia il diritto all'assegno (e conseguentemente ad una
quota di TFR, alla pensione di reversibilità, eventualmente
da ripartirsi con altro coniuge dell'obbligato, ad
un assegno a carico dell'eredità) trova il suo fondamento
nel dovere inderogabile di solidarietà economica e sociale
tra persone ormai estranee, che pure hanno svolto una
parte più o meno lunga della loro vita in piena comunanza
(e assai significativamente l'ex coniuge non compare tra i
soggetti obbligati agli alimenti, pur attinenti ad una famiglia
estremamente elevata, che non trova alcuna rispondenza
sociologica nella realtà odierna; anche in tal caso,
del resto, si considera dapprima la sola persona richiedente,
valutandosi la sua inadeguatezza a soddisfare i
bisogni essenziali, e, solo successivamente, la situazione
economica dell'obbligato o degli obbligati).
Vi è chi ricorda peraltro le persistenti discriminazioni
economiche della donna nel luogo di lavoro, e, più in
generale, l'emarginazione che talora la colpisce nei più
diversi settori, ma, all'evidenza di ciò deve farsi carico
l'intera società e il Parlamento, con leggi adeguate che
avvicinino l'Italia alla maggior parte degli altri Paese
europei, e non certo (sempre e soltanto) l'ex coniuge.
È appena il caso di precisare che la sentenza della Corte
Costituzionale n. 11 del 2015 che - secondo alcuni interpreti
- avrebbe recepito e fatto proprio l'orientamento
pregresso di questa Corte sul tenore di vita, si colloca
nell'ambito del difficile e complesso rapporto tra le sentenze
“interpretative” della Consulta e la posizione della
Cassazione, custode della nomofilachia, e dei giudici di
merito (al riguardo, tra le altre, Cass., S.U., n. 27986 del
2013). Com'è noto, la Corte Costituzionale ha talora
ritenuto infondata la questione di legittimità di una disposizione
di legge, indicando una interpretazione escludente
l'accoglimento della questione stessa (ciò allo scopo evidente
di evitare la creazione di troppe “lacune” nell'ordinamento)
e tuttavia i giudici (e in particolare questa
Corte) non hanno accolto l'impostazione della Consulta,
continuando a privilegiare interpretazioni della norma
differenti da quella indicata dalla Consulta. Non di
rado, il giudice delle leggi, di fronte a questo indubbio
conflitto, ha finito per dichiarare l'incostituzionalità della
norma. Proprio per evitare questa necessaria conseguenza,
da tempo la Corte Costituzionale preferisce far propria
l'interpretazione prevalente e consolidata tra i giudici
(specie se abbia ricevuto la conferma di questa Corte) il
cosiddetto diritto vivente, e valutare se essa sia conforme o
meno alla Costituzione.
Dunque la Consulta si è limitata a ritenere l'interpretazione
privilegiata dalla Cassazione (circa il tenore di vita
pregresso) conforme a Costituzione, così come - è da
ritenere - sarebbe parimenti conforme l'indirizzo giurisprudenziale
che l'ha sostituito, inerente all'autosufficienza
economica.
Quanto alla fattispecie dedotta, escluso ogni riferimento al
tenore di vita pregresso, così come alle circostanze che
riguarderebbero semmai la quantificazione dell'assegno:
ragioni della decisione (la presunta relazione amorosa del
marito) nonché il contributo della moglie alla conduzione
familiare ecc., va precisato che per giurisprudenza consolidata
(per tutte, Cass. n. 18433 del 2010), l'assegno di
separazione e gli accordi assunti in tale sede tra i coniugi
(salvo che i coniugi stessi non intendano incidere direttamente
sul futuro regime del divorzio) non rilevano direttamente
ai fini della determinazione di quello di divorzio,
stante la differente natura, caratteri e contenuto. Semmai
gli accordi pregressi potrebbero considerarsi nella valutazione
del patrimonio e del reddito di entrambi i coniugi.
Infine, alla luce del novellato art. 360 c.p.c., n. 5, non è più
possibile censurare l'insufficienza o contraddittorietà della
motivazione, essendo necessario richiamarsi a fatti specifici
e determinati, trascurati dal giudice ed oggetto di
discussione tra le parti (tra le altre, Cass., S.U., n. 8053
del 2014). In sostanza la ricorrente propone inammissibilmente
una generale valutazione alternativa rispetto a
quella effettuata dal giudice a quo, con motivazione adeguata
e non contraddittoria: la Corte di merito sostiene
che, con gli accordi omologati. i coniugi hanno proceduto
alla divisione del patrimonio immobiliare e la moglie ha
ottenuto il riconoscimento della proprietà esclusiva della
casa coniugale nonché di altro appartamento sito in
(Omissis) che si sono aggiunti ad altro di sua proprietà,
pervenutole per successione. Continua il giudice a quo
osservando che, dalla gestione di tali immobili - uno dei
quali avente specifica destinazione commerciale - la S. può
ricavare reddito adeguato a consentirle un tenore di vita
dignitoso, pur osservando che in nessun caso sarebbe
possibile mantenere il pregresso tenore di vita, essendo
venute meno le economie gestionali consentite dalla
convivenza. È appena il caso di precisa che eventuali errori
sulla consistenza dei redditi e patrimoni avrebbero dovuto
semmai essere oggetto di un ricorso per revocazione.
Per quanto finora osservato, i motivi del ricorso principale
presentano profili in parte di inammissibilità, in parte di
infondatezza e vanno rigettati.
Conclusivamente va rigettato il ricorso.
Ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 4, non va cassata la
sentenza impugnata, essendo conforme al diritto il dispositivo,
e va corretta la motivazione, escludendosi ogni
riferimento al tenore di vita pregresso, sostituito dal principio
di autosufficienza economica del coniuge.
Pur trattandosi di orientamento consolidato, posto che, al
momento della presentazione del ricorso era ancora operante
l'orientamento pregresso si ritiene di compensare
totalmente le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale;
compensa le spese di giudizio tra le parti.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere
le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del
D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla
legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma
1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte del ricorrente principale e di quello
incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello
stesso art. 13, comma 1 bis.
22-09-2018 16:06
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