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Sentenza

Fecondazione eterologa: L'art. 4 L.40/2004 per il Tribunale di Catania potrebbe essere incostituzionale.
Fecondazione eterologa: L'art. 4 L.40/2004 per il Tribunale di Catania potrebbe essere incostituzionale.
Tribunale di Catania, sez. I Civile, ordinanza 29 marzo - 13 aprile 2013
Presidente Morgia - Relatore Sabatino

Fatto

I ricorrenti C. P. (nata il 14.3.1974) e R. G. (nato il 13.2.1971), coniugati dal 2005, con ricorso ex art. 700 c.p.c., deducevano: di essere coppia infertile ai sensi della legge n.40/04, essendosi accertata per il partner femminile una sterilità assoluta causata da menopausa precoce; che dopo essersi rivolti a vari specialisti, contattavano il Centro UMR, specializzato in medicina della riproduzione di cui è direttore responsabile il dr. A. G. che, nel confermare la diagnosi di infertilità dovuta a menopausa precoce, riteneva inutile e potenzialmente dannoso per la salute della sig.ra C. procedere con ulteriori terapie ormonali, indicando quale unica via  percorribile il ricorso alla c.d. ovodonazione; che, quindi, essi coniugi R.- C. si rivolgevano al predetto centro chiedendo che venisse eseguita tale tecnica; che il dr. A. G., odierno resistente, opponeva un rifiuto essendo nel nostro Paese vietata, giusta il disposto dell'art.4 comma 3 della legge n.40/04, la fecondazione di tipo eterologo.
Pertanto, i coniugi R.- C. sostenevano, in primo luogo, la necessità di una lettura costituzionalmente orientata dell'art.4 comma 3 della legge n.40/04, incentrata sulla valorizzazione del combinato disposto degli artt. 4 e 5 della legge medesima. Ciò in quanto l'art. 4, comma 1, che definisce le cause di infertilità e sterilità che possono essere risolte grazie all'accesso alle tecniche di fecondazione assistita, è richiamato dall'art. 5, mentre l'art. 4, comma 3, che pone il divieto di fecondazione eterologa, non è oggetto di alcun richiamo esplicito da parte dell'art. 5. Per tale ragione doveva ammettersi, secondo l'interpretazione prospettata dai ricorrenti, l'esistenza di uno spazio per una deroga al divieto di fecondazione eterologa, che si apre nel caso di coppie in grado di soddisfare i requisiti dell'art. 5 (dunque, coppie di persone maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi), non esistendo per tali coppie un divieto espresso di fecondazione eterologa. Secondo tale interpretazione, può dunque accedere alla fecondazione assistita chi soddisfi i requisiti soggettivi richiesti dall'art. 5, indipendentemente dal tipo di tecnica (omologa o eterologa) cui si chiede di accedere.
I ricorrenti, ritenevano che, non ammettendo l'interpretazione delle norme testé suggerita, l'ipotesi di interpretazione rigida delle citate norme si poneva in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 31, 32 e 117 comma 1 Cost.. Invero, se l'art. 4, comma 3 della legge n.40/04 vietasse davvero in modo generalizzato la fecondazione eterologa, esso darebbe luogo ad una discrimi­nazione ingiustificata tra coppie infertili a seconda del grado di infertilità, poiché le coppie in cui uno dei partner è incapace di produrre gameti fecondabili artificialmente sarebbero escluse dalle tecniche di fecondazione assistita, mentre le coppie affette da forme meno gravi di infertilità (che non necessitano della donazione di gameti) potrebbero usufruire delle tecniche di fecondazione assistita previste dalla normativa in questione. Ciò comporterebbe, secondo i ricorrenti, la violazione dell'art. 2 Cost. che sancisce il diritto di identità e di autodetermina­zione, dell'art. 3 Cost. che sancisce il principio di uguaglianza, nonché degli ulteriori parametri costituzionali evocati (quali il diritto alla maternità tutelato dall'art. 31 Cost., il diritto alla salute dei componenti della coppia di cui all'art. 32 Cost., l'art.117 comma primo Cost. per violazione della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo).
I ricorrenti,  pertanto, concludevano chiedendo che, ritenuta la sussistenza del fumus boni iuris, sulla base dell'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa, e del periculum in mora, venisse ordinato in via d'urgenza ex art. 700 c.p.c. al centro UMR di “eseguire a favore dei ricorrenti, secondo l'applicazione delle metodiche della procreazione assistita, la c.d. fecondazione eterologa e, nel caso di specie, la donazione di gamete femminile secondo le migliori e accertate pratiche mediche”.
Nel caso, poi, di interpretazione rigida della suddetta normativa, doman­davano che, stante la sostenuta incostituzionalità della normativa medesima, fosse ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 3 della legge n.40/04 per violazione degli artt. 2, 3, 31, 32 e 117 comma 1 Cost.
Costituitasi in giudizio la società cooperativa UMR, in persona del legale rappresentante G. A., dichiarava la propria disponibilità ad applicare la tecnica di PMA (procreazione medicalmente assistita) indicata per il caso specifico, che prevede l'impiego di ovociti provenienti da una donatrice, a condizione che venisse rimosso l'ostacolo legislativo costituito dall'art.4 comma 3 della legge n.40/04.
Intervenivano nel giudizio, per sostenere le domande di parte ricorrente, l'associazione “HERA ONLUS”, l'associazione “SOS infertilità ONLUS” e l'associazione “Menopausa precoce”.
All'udienza di comparizione del 21.09.10, le parti insistevano nelle domande formulate, il giudice riservava ordinanza.
A scioglimento della riserva assunta in tale udienza, in data 21.10.10, il Giudice depositava ordinanza con cui, premessa l'impossibilità di superare il divieto di fecondazione eterologa attraverso la lettura costituzionalmente orientata suggerita dai ricorrenti, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza, rimetteva alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 3, 9, commi 1 e 3, limitatamente alle parole “in violazione del divieto dell'art. 4 comma 3”, 12 comma 1 della legge n.40/04 per contrasto con gli artt.117 comma 1 Cost., 2, 3, 31 e 32, commi 1 e 2, Cost., nella parte in cui impongono il divieto di ricorrere alla fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo e prevedono sanzioni nei confronti delle strutture che dovessero praticarla.
Con ordinanza n.150 del 22.05.12, la Corte Costituzionale, disposta la riunione dei giudizi promossi dal Tribunale ordinario di Firenze con ordinanza del 6.09.10, dal Tribunale ordinario di Catania con la citata ordinanza del 21.10.10, e dal Tribunale ordinario di Milano con ordinanza del 2.02.11, siccome aventi ad oggetto, in parte, le stesse norme, censurate in relazione a parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni in larga misura coincidenti, e ritenuta l'ammissibilità delle questioni proposte, potendo la questione di legittimità costituzionale essere sollevata, secondo il consolidato orientamento della Corte Costituzionale, in sede cautelare quando, come accaduto nella specie, il giudice non abbia provveduto sulla domanda o non abbia comunque ancora esaurito il proprio potere cautelare, ha osservato che tutti i rimettenti sollevano anzitutto questione di legittimità costituzionale delle norme oggetto di censura in riferimento all'art.117 comma 1 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e premettono di dover applicare queste ultime “nell'interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo” con la sentenza della prima sezione del 1.0.4.2010, S.H. ed altri contro Austria.
Aggiunge, però, la Corte delle leggi che, successivamente a tutte le ordinanze di rimessione, la Grande Camera della Corte di Strasburgo, alla quale, ai sensi dell'art. 43 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, è stato deferito il caso deciso dalla prima sezione, con la sentenza del 3.11.2011, S.H. ed altri contro Austria, si è pronunciata in senso diverso sul principio enunciato dalla prima sezione con la sentenza dell' 1.04.2010 richiamata dai rimettenti per identificare il contenuto delle norme della CEDU ritenute violate dalle disposizioni interne censurate.
Pertanto - premesso che, secondo il costante orientamento della Corte Costituzionale (tra le molte, sent. n.348 e n.349 del 2007, sent. n.236/2011), la questione dell'eventuale contrasto della norma interna con le norme della CEDU va risolta alla luce del principio secondo cui il giudice nazionale, al fine di verificare la sussistenza del contrasto, deve avere riguardo alle “norme della CEDU come interpretate dalla Corte di Strasburgo” “specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione” (così, da ultimo, sent. n.78/12) e considerato che, secondo l'orientamento altrettanto consolidato della Corte Costituzionale, dev'essere ordinata la restituzione degli atti al giudice a quo affinché questi proceda ad un rinnovato esame dei termini della questione qualora all'ordinanza di rimessione sopravvenga una modificazione della norma costituzionale invocata come parametro di giudizio ovvero della disposizione che integra il parametro costituzionale oppure qualora il quadro normativo subisca considerevoli modifiche pur restando immutata la disposizione censurata - la Corte Costituzionale ha ritenuto che la pronuncia della Grande Camera, incidendo sul significato delle norme convenzionali considerate dai giudici a quibus, costituisca un novum che influisce direttamente sulla questione di legittimità costituzionale così come proposta, avendo i giudici a quibus non solo proposto la questione di legittimità costituzionale riferita all'art. 117 comma 1 Cost. in linea preliminare rispetto alle altre pure sollevate, ma avendo altresì ripetutamente richiamato la suindicata sentenza della prima sezione della Corte di Strasburgo allo scopo di trarne argomenti a conforto delle censure proposte in relazione anche agli ulteriori parametri costituzionali evocati, ed ha, pertanto, disposto la restituzione degli atti ai giudici a quibus “affinchè i rimettenti procedano ad un rinnovato esame dei termini delle questioni”.
Con istanza depositata in data 28.07.12, gli odierni ricorrenti chiedevano la riassunzione del giudizio cautelare e la fissazione dell'udienza di comparizione delle parti, con termine per il deposito di memorie.
All'udienza dell'8.11.12 all'uopo fissata, le parti insistevano in tutte le domande già formulate e chiedevano termine per note. Il giudice riservava ordinanza assegnando termine di giorni venti. Con  ordinanza del 28.1.2013 il Giudice di prime cure sosteneva l'insussistenza, nel caso de quo, del requisito della non manifesta infondatezza della questione proposta con riguardo ai parametri evocati. Nell'ordinanza citata, infatti, il giudicante, ha affermato che: “quanto al denunciato contrasto dell'art.4 comma 3 della legge n.40/04 con l'art.117 comma 1 Cost. per violazione degli art. 8 e 14 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (nel prosieguo indicata come CEDU), va anzitutto ricordato che, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 e poi con le successive n. 311 del 2009 e n.93 del 2010, la giurisprudenza della Corte Costituzionale è rimasta ferma nel ritenere che le norme della CEDU integrano, quali “norme interposte”, il parametro costituzionale espresso dall'art.117 comma 1 Cost. nella parte in cui esso impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli “obblighi internazionali”, sicché “il giudice nazionale comune deve preventi­va­mente verificare la praticabilità di una interpretazione della norma interna conforme alla norma convenzionale ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica e, ove tale soluzione risulti impercorribile, non potendo egli disapplicare la norma interna contrastante, deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento al parametro dell'art. 117 comma 1 Cost.” (C. Cost. n.93 del 2010); che inoltre (come sottolineato dalla Corte Costituzionale nell'ordinanza di restituzione degli atti ai giudici a quibus del 22.05.12) la questione dell'eventuale contrasto della disposizione interna con le norme della CEDU va risolta nel senso che il giudice comune deve, laddove un contrasto siffatto si profili, avere riguardo alle norme convenzionali nel significato loro attribuito dalla Corte di Strasburgo cui è demandata (dall'art. 32 par.1 della CEDU) la specifica funzione di dare alle relative norme interpretazione ed applicazione (“Il contenuto della Convenzione e degli obblighi che da essa derivano è essenzialmente quello che si trae dalla giurisprudenza che nel corso degli anni la Corte di Strasburgo ha elaborato”, vedi sent. n. 311 del 2009 e n. 236 del 2011).
Ne consegue che, al fine di verificare la sussistenza del denunciato contrasto dell'art. 4 comma 3 della legge n.40/04 con le norme di cui agli artt. 8 e 14 della CEDU, non può non tenersi conto del modo in cui queste ultime sono state interpretate dalla Corte di Strasburgo.
L'art. 8 della CEDU tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare vietando (art. 8 par. 2) le ingerenze della pubblica autorità nell'esercizio di tale diritto, se non nei casi in cui vengano in rilievo altri diritti o interessi di rango uguale o superiore; l'art. 14 sancisce il divieto di discriminazione quanto al godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione.
La Corte CEDU ha ritenuto (secondo l'esegesi accolta dalla prima sezione nella sentenza del 10.4.10, S.H. ed altri contro Austria, per quest'aspetto fatta propria dalla Grande Camera nella sentenza del 3.11.11, vertente sul medesimo caso) che il diritto di una coppia di concepire un figlio e di fare uso a tal fine delle tecniche della PMA rientri nell'ambito del diritto al rispetto della vita privata e familiare, tutelato dall'art. 8 della CEDU, e che l'esercizio di tale diritto (come di tutti i diritti tutelati dalla Convenzione) debba essere consentito dagli Stati ade­renti alla CEDU senza alcuna discriminazione e disparità di trattamento, come previsto dall'art.14 della Convenzione stessa.
All'interno di tale impostazione, non è ravvisabile -ad avviso di quel decidente- alcuna incompatibilità tra l'art. 4 comma 3 della legge n.40/04 e le richiamate disposizioni convenzionali, atteso che il divieto assoluto di feconda­zione eterologa posto dal citato art. 4 comma 3 di certo si configura – nella logica dell'art. 8 della CEDU - come “ingerenza della pubblica autorità” nella scelta della coppia (costituente espressione del diritto al rispetto della vita privata e familiare) di concepire un figlio facendo ricorso a tale tecnica procreativa, ma la suddetta ingerenza risulta giustificata dalla necessità di assicurare protezione a diritti altrui di rango non inferiore (vedi art. 8 par.2 della CEDU secondo cui “Non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell'esercizio di tale diritto, se non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge ed in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, il benessere economico del Paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui)” e che: “Le condizioni e le limitazioni previste dalla citata legge alla possibilità di ricorrere alla PMA sono, dunque, imposte dalla superiore esigenza di tutela della salute e dignità dei soggetti coinvolti, tra cui il concepito che – in caso di fecondazione di tipo eterologo ed, in specie, in caso di fecondazione assistita da attuarsi (come nel caso che ci occupa) tramite donazione di ovociti - verrebbe a trovarsi in una situazione di “maternità frammentata” (vi sarebbero, infatti, una madre “genetica” che si identifica nella donatrice ed una madre “biologica” che si identifica in colei che dà alla luce il bambino). E tale situazione – come va sottolineato - non è in alcun modo assimilabile ad altri istituti giuridici ammessi dal nostro ordinamento quali l'adozione poiché, in caso di adozione, vi sono due genitori legittimi (gli adottanti) che non corrispondono ai genitori biologici (la cui identità è destinata a rimanere coperta da anonimato) senza che tra i primi e i secondi si instauri alcuna sovrapposizione o concorso nella pro­creazione tale da rendere incerta l'identità del figlio.
Queste essendo le ragioni poste a base del divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legge italiana, ne consegue che la disparità di trattamento che, in conseguenza di tale divieto, si determina tra una coppia (come quella odierna ricorrente) ostacolata nel proprio desiderio di avere un figlio dal divieto suddetto e, dall'altra parte, una coppia che avendo un problema riproduttivo che non richiede la donazione di gameti può accedere alla PMA (facendo ricorso alla fecondazione omologa), lungi dal costituire un profilo di incoerenza nel quadro normativo disciplinante l'accesso alla PMA, trova invece una ragionevole giustificazione nell'obiettiva diversità che caratterizza la situazione dell'una e dell'altra categoria di coppie, avuto riguardo alla posizione e agli interessi del nascituro”. Quanto alla lamentata violazione dei c.d. parametri interni, il Giudice di prime cure ha concluso per la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionalità sollevata dalle parti ritenendo che in tutti i casi in cui si era prospettata la violazione degli artt. 2, 3, 31, 32 della Cost. occorreva fare una  valutazione di bilanciamento tra gli interessi della coppia che necessita di donazione di gameti, la libera espressione della personalità di detta coppia,  il diritto di creare una famiglia e di curare la salute, con il diritto di un terzo, il nascituro, ad avere la certezza della propria provenienza genetica. Tale bilanciamento, nell'ordinanza reclamata, veniva risolto a favore del nascituro con conseguente accantonamento dei diritti della coppia, declaratoria di manifesta infondatezza della questione e rigetto del ricorso ex art. 700 c.p.c.
Con ricorso depositato il 28.1.2013 i coniugi C. – R. proponevano reclamo avverso tale provvedimento di rigetto insistendo nel sostenere l'irragio­ne­volezza della normativa di riferimento sotto il profilo della violazione dei più volte indicati parametri interni e chiedendo l'accoglimento del ricorso.
All'udienza del 28.2.2013 il Tribunale si riservava di provvedere.

Motivazione

Occorre verificare la sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora.
Sotto il primo profilo vi è da dire che i ricorrenti soddisfano i requisiti di cui all'art. 5 della legge n. 40/2004, in quanto essi sono maggiorenni, di sesso diverso, coniugati, in età fertile.
Inoltre, la ricorrente è affetta da accertata sterilità secondaria da menopausa precoce.
La soluzione della problematica riproduttiva del caso si scontra, tuttavia,  con il divieto posto dall'art. 4 comma 3 l. n. 40/2004.
Occorre, ribadire quanto affermato dalla prima ordinanza di rimessione di questo Tribunale del 21.01.2010 per cui deve escludersi che il divieto de quo possa essere superato attraverso l'interpretazione costituzionalmente orientata proposta dai ricorrenti, in quanto l'assenza di un rinvio esplicito da parte dell'art. 5 al divieto di feconda­zione eterologa non rileva in alcun modo rispetto all'efficacia di tale divieto nei confronti di chi tali requisiti soddisfi.
Infatti, l'art. 4, comma 1, e l'art. 5 L. n. 40/2004 non sono norme sovrapponibili poiché hanno oggetti diversi e, pertanto, non possono essere legate da un rapporto di principio – deroga.
Inoltre, il rinvio esplicito dell'art. 5 al solo art. 4 comma 1 è giustificato dal fatto che quest'ultima norma dà una definizione di infertilità, al contrario del comma 3 dell'art. 4 che si limita a sancire il divieto di fecondazione eterologa.
Infine, a rendere chiaro il divieto di tale tecnica procreativa si pone il richia­mo incidentale di tale divieto in altre norme (vedi art. 9, comma 1 e 3,), nonché la sanzione che, secondo la previsione dell'art. 12, si applica a chiunque utilizza a fini procreativi gameti esterni alla coppia (eccetto che ai componenti della cop­pia).
Occorre, allora, verificare se ricorrono tuttavia i presupposti per la rimettere nuovamente gli atti alla Corte Costituzionale affinché essa si pro­nun­ci sulla costitu­zionalità del divieto di fecondazione eterologa sancito dalla L. 40/2004, posto che, nella specie, sussiste anche il requisito del periculum in mora attesa l'età avan­zata della ricorrente, l'accertata incidenza dell'età sul successo della PMA ed i tempi normali di un processo ordinario.
La questione è rilevante proprio perché non vi sono altre interpretazioni adottabili dell'art. 5 L. 40/2004 e perché solo superando il divieto in questione i coniugi potranno accedere alle tecniche di PMA.
Sotto il profilo della non manifesta infondatezza della questione vale evidenziare quanto segue.
Si conviene con il Giudice dell'ordinanza reclamata nella parte in cui afferma non  possa più parlarsi di contrasto tra la legge 40/2004 e l'art. 117 della Cost. essendo ormai intervenuta la sentenza della Grande Camera che ha escluso sussistere alcun contrasto tra la legislazione austriaca sulla fecondazione eterologa in vitro e gli artt. 8 e 14 della Cedu, rinvenendo in essa un'ipotesi in cui il legislatore di quella nazione ha legittimamente ritenuto, nell'ambito della sua discrezionalità, di limitare il diritto della persona (la coppia sterile) imposto dalla necessità di tutelare i diritti di terzi (il nascituro).
Quanto alla posizione in cui si trova il Giudice italiano quando sopravviene un'interpretazione delle norme convenzionali da parte della Corte di Strasburgo (si veda, tra le tante, Corte Cost. sentenza n. 236/2011) “non è in potere della Corte costituzionale sindacare l'interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di Strasburgo e sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella della Corte di Strasburgo, con la conseguenza che le norme della CEDU devono quindi essere applicate nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo: e tuttavia, la Corte costituzionale può valutare come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione della Corte europea si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano. Invero, la norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell'art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui la Corte costituzionale è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza”.
Ne consegue che il Giudice italiano rimane libero nel valutare la non manifesta infondatezza della questione del contrasto tra norma di riferimento e parametri “interni”.
Al riguardo, questo Collegio ritiene doversi discostare dall'interpre­tazione adot­tata dal Giudice dell'ordinanza reclamata.
I parametri interni ivi richiamabili e richiamati sono gli artt. 3, 31, 2, e 32 Cost..
Innanzitutto, ritiene questo collegio che la norma in esame violi gli artt. 3 e 31 Cost..
Come osservato da questo Tribunale in composizione monocratica con l'ordinanza di remissione del 21.01.2010:  “dall'art. 3 discendono tanto il principio di non discriminazione che quello di ragionevolezza. Tali limiti imposti al legislatore comportano che lo stesso, pur essendo nella condizione di disciplinare le materie che sono attribuite alla sua competenza in modo libero, tuttavia, non può escludere determinati soggetti dal godimento di specifiche situazioni, o imporre agli stessi divieti, in modo discriminatorio, a maggior ragione quando tali situazioni sono costituzionalmente rilevanti.
Attraverso il principio d'eguaglianza e di verifica che la legge disponga un trattamento pari, per posizioni eguali, e differenziato per situazioni diverse, si è estrapolato dalla Costituzione un “canone di coerenza dell'ordinamento giuridico”, incentrato sulla clausola generale della ragionevolezza, grazie al quale si è progressivamente esteso il giudizio di legittimità costituzionale sull'azione del legislatore, in termini di logicità interna della normativa, razionalità delle deroghe apportate, giustificazione delle differenze di trattamento.
Il legislatore può, così, imporre limiti ai diritti e agli interessi dei soggetti in base alle finalità che si intendono perseguire con l'esercizio del potere legislativo ma non può trattare diversamente determinati soggetti rispetto ad altri che si trovino nella medesima o analoga situazione, a meno che la disparità di trattamento non sia giustificata in modo ragionevole: “il principio di eguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso a cittadini che si trovino in situazione eguale”(C. Cost n. 15 del 1960); e, ancora, per citare un altro esempio in tal senso: “il principio di cui all'art. 3 Cost. è violato non solo quando i trattamenti messi a confronto sono formalmente contraddittori in ragione dell'identità delle fattispecie, ma anche quando la differenza di trattamento è irrazionale secondo le regole del discorso pratico, in quanto le rispettive fattispecie, pur diverse, sono ragionevolmente analoghe” (C.Cost. n. 1009 del 1988).
Ora, quello alla creazione di una famiglia costituisce un diritto fondamen­tale oltre che interesse pubblico riconosciuto e tutelato ex artt. 2 e 31 Cost., come affermato dalla stessa Corte Costituzionale (C. Cost. n.46 del 1993), dunque, la soluzione dei problemi riproduttivi mediante la procreazione medicalmente assistita è una situazione immediatamente riconducibile nell'alveo di tale diritto fondamentale e del diritto alla maternità/paternità”.
Nel caso in esame, nella persistenza del divieto de quo sarebbero trattate in modo opposto coppie con problemi di procreazione, risultando differenziate solo dal tipo di patologia che affligge i componenti della coppia.
Inoltre, viene in rilievo l'art. 3 Cost anche sotto il profilo del divieto di irragionevolezza dal momento che le coppie soggette alla patologia più grave sarebbero escluse dall'accesso alla fecondazione assistita.
Infine, come osservato dal Tribunale di Milano, nell'ordinanza di rimes­sione alla Corte Costituzionale del 9.4.2013, i concetti di famiglia e genitorialità, richiamati dall'art. 31 Cost, in quanto afferenti a principi costituzionali, sono dotati di naturale duttilità e, quindi, devono forgiarsi alla luce dell'evoluzione socio-culturale del momento storico.
Non può non sottacersi che il concetto di famiglia è andato cambiando, estendendosi notevolmente, dal dì dell'emanazione della Carta Costituzionale.
Sussiste la violazione dell'art. 2 della Cost.
Il divieto oggetto di censura, infatti, non garantisce alle coppie, cui viene diagnosticato un quadro clinico di sterilità o infertilità irreversibile, il proprio diritto alla vita privata e familiare, e il proprio diritto di identità e di autode­terminazione.
Come è stato osservato da questo Tribunale in composizione monocratica con l'ordinanza di remissione del 21.10.2010: “la decisione da parte delle coppie sterili o infertili di far uso della procreazione artificiale riguarda, infatti, la sfera più intima della persona, incidendo direttamente sulla stessa libertà di autodeterminarsi; ma tale diritto, inevitabilmente, è condizionato dai limiti determinati dalla patologia di cui le coppie stesse soffrono, trovandosi, in presenza del divieto di donazione dei gameti, nell'impossibilità di poter fondare una famiglia e quindi di poter costruire liberamente la propria vita ed esistenza”.
Vi è, infine, il contrasto con l'art. 32 Cost..
Infatti, non vi è dubbio che le tecniche di PMA siano da considerarsi come rimedi terapeutici sia in relazione ai beni che ne risultano coinvolti (cfr. Corte Cost. n. 559/1987 e n. 185/1998) sia perché implicano un trattamento da eseguirsi sotto diretto controllo medico, coperto da SNN e diretto a superare una causa patologica che impedisce la procreazione.
Il divieto posto dalla l. 40/2004, dunque, impedirebbe, irragionevolmente, la cura di una patologia acclarata di cui la coppia è affetta.
Quanto al profilo del coinvolgimento, in ogni vicenda relativa alla c.d. fecondazione eterologa, di diritti di terzi, non affrontato dall'ordinanza del 21.10.2010, ma evidenziato dalla recente pronuncia della Grande Camera, il Collegio ritiene di optare per una soluzione differente rispetto a quella fatta propria dal Giudice dell'ordinanza reclamata.
I terzi i cui diritti vengono in rilievo nel caso di accesso alla fecondazione eterologa sono la madre genetica, la madre biologica e il nascituro.
Al riguardo, questo collegio non ritiene, in primo luogo, possa ravvisarsi un profilo di rischio alla salute (fisica o mentale) per la madre biologica per l'impianto di un gamete da essa non prodotto dal momento che non risulta, allo stato delle attuali e condivise conoscenze mediche,  non soltanto alcuna certezza di un reale pericolo in tal senso ma neppure l'esistenza di alcuna casistica negativa che abbia una qualche incidenza statisticamente apprezzabile di danni di alcun genere in assenza di autorevoli e condivisi rilevamenti e/o studi scientifici che possano in qualche modo confermare tale pericolo, potendosi, tutt'al più, ipotizzare di trovarsi di fronte ad una mera e soggettiva presunzione di pericolo suggerita, forse, dalla novità e particolarità della situazione e dalle questioni etiche poste, presunzione, però, non suffragata da adeguato, attendibile e condiviso supporto scientifico.
Analoghe considerazioni possono farsi con riferimento alla salute della donatrice chiamata, secondo alcuni, in ipotesi, a stressare il proprio fisico per l'eventuale commercializzazione dei gameti.
Questo pericolo è evitato, invero, dal divieto della l. 40/2004 di commer­cializzazione degli ovuli ed è, comunque, comune  ad altre e ben più rilevanti ipotesi, eticamente e socialmente ampiamente approvate,  di donazione di tessuti, organi o parti di essi tra viventi.
Questo collegio non ritiene, infine, sussistano i presupposti per pregiudi­care il diritto della coppia a fronte del presunto diritto del nascituro alla consape­vo­lezza della propria provenienza genetica.
Giova, infatti, richiamare al riguardo la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1975 la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'allora vigente art. 546 del codice penale (che puniva chi cagionava l'aborto di donna consenziente), nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse venire interrotta allorquando l'ulteriore gestazione implicasse danno, o pericolo, grave, medical­mente accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della madre.
In essa è pur vero che il Giudice delle leggi ha affermato che la tutela del concepito - che già viene in rilievo nel diritto civile (artt. 320, 339, 687 c.c.) - ha fondamento costituzionale nell'art. 31, secondo comma, della Costituzione che impone espressamente la "protezione della maternità" e, più in generale, nell'art. 2 Cost. che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito, ma è anche vero che ha, tuttavia, affermato che questa premessa - che di per sé giustificava l'intervento del legislatore volto a prevedere sanzioni penali - andava accompagnata dall'ulteriore considerazione che l'inte­resse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venire in collisione con altri beni che godono pur essi di tutela costituzionale e che, di conseguenza, la legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione.
Ed, invero, a tutelare il diritto della madre non venne dalla Corte ritenuta sufficiente la scriminante generale di cui all'art. 54 c.p. (stato di necessità) che esige non soltanto la gravità e l'assoluta inevitabilità del danno o del pericolo, ma anche la sua attualità, mentre il danno o pericolo conseguente al protrarsi di una gravidanza può essere previsto, ma non é sempre immediato.
Peraltro, aggiunse la Corte, la scriminante dell'art. 54 c.p. si fonda sul presupposto d'una equivalenza del bene offeso dal fatto dell'autore rispetto all'altro bene che col fatto stesso si vuole salvare.
“Ora” concluse la Corte,  “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi é già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare”.
Analogamente, nel caso che ci occupa, ritenuto che la soluzione dei pro­blemi riproduttivi mediante la procreazione medicalmente assistita (ai quali la stessa legge n. 40 del 12004 intende porre rimedio) è una situazione imme­diatamente ricon­du­ci­bile nell'alveo del diritto fonda­mentale alla maternità/pa­ter­ni­tà, non par dubbio che il bilanciamento tra interessi (diritti) costituzionalmente protetti alla creazione di una famiglia che costituisce un diritto fondamen­tale, oltre che interesse pubbli­co, riconosciuto e tutelato ex artt. 2 e 31 Cost. (come affermato dalla Corte Costituzionale (C. Cost. n.46 del 1993) facenti capo alla coppia e cioè a soggetti esistenti (persone in senso tecnico), e dall'altro  ad una entità (embrione, feto) che soggetto (nel senso pieno di persona) ancora non è, non sembra possa ragionevolmente risolversi in favore del secondo.
Invero, anche a volere attribuire al nascituro una assai ampia tutela (che, come vedremo, la stessa legge n. 40/2004 in effetti gli riconosce), allo stato, esso non sembra, comunque, potersi pienamente equiparare, né giuridicamente né nella comune percezione sociale, alla persona già nata.
In proposito, se è vero che tra le finalità che la l. 40/2004 si propone vi è anche quella di tutelare il concepito, che definisce soggetto, non arriva, però, a modificare l'art. 1 del codice civile che, com'è noto, riconosce la capacità giuridica solo al momento della nascita e subordina ad essa l'effettivo sorgere dei diritti ivi menzionati con riferimento agli artt. 462, 687 e 715 c.c. (per donazione e testamento).
D'altra parte, dalla lettura della legge n. 40/2004, si evince che essa ha voluto tutelare il concepito nel senso di metterlo al riparo da trattamenti “disumani” cui comporta­menti spregiudicati avrebbero potuto sottoporlo, quali la crioconservazione, la sperimentazione, la selezione genetica.
Per altro verso, nonostante il capo III sia esplicitamente rubricato come “disposizioni concernenti la tutela del nascituro”, deve rilevarsi che le disposizioni in esso contenute non riguardano la tutela diretta del concepito bensì lo stato giuridico del nato in quanto in esso si prevede che “i nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime…” (art. 8)  ed ancora si prevede il divieto del disconoscimento della paternità, si esclude il diritto all'anonimato della madre (ancora art. 8) e, qualora si sia fatto comunque ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l'azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall'articolo 235, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile, né l'impugnazione di cui all'articolo 263 dello stesso codice e la madre non può dichiarare la volontà di non essere nominata (art.9).
Ed ancora, sempre “in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto nè essere titolare di obblighi” (art. 9, 3° comma).
Tutte disposizioni, queste, che, come è evidente,  tendono a tutelare co­mun­­que e nel miglior modo possibile l'interesse del nascituro e sono idonee a realiz­zare una “stabilità parentale” che non sembra possa ritenersi deteriore rispetto a quel­la del figlio adottivo e, per certi versi, anche migliore di quella di cui gode il figlio nato da ogni unione “naturale”, soggetto, com'è noto, alle azioni di discono­scimento di stato o al mancato riconoscimento da parte del padre o della madre che ha anche il diritto di non essere nominata al momento del parto, tutele a fronte delle quali, appare francamente irragionevole il manifestato timore di rendere incerta “l'identità del figlio”.
Inoltre, ciò che più non convince è la conseguenza cui si giungerebbe in nome dell'esigenza di rispettare il preteso “diritto” del nascituro alla consape­volezza della propria provenienza genetica anche perché, come poco sopra ricordato, provvidamente il 3° comma dell'art. 9 tende (in caso di fecondazione eterologa effettuata in violazione dell'art. 4), come nel caso dell'adozione, a recidere ogni relazione giuridica parentale del donatore di gameti con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto nè essere titolare di obblighi”.
Ed, invero, paradossalmente, per essere certi che un futuro soggetto non abbia a patire tale ipotetica e soggettiva sofferenza (per l'ignoranza della propria provenienza genetica, comune, peraltro, ad una non trascurabile porzione del genere umano) gli si impedirebbe, in radice, il ben più rilevante (almeno nel comune sentire) diritto di venire al mondo, rimedio che ragionevolmente appare ben peggiore del male (eventuale) che gli si vorrebbe evitare.
Il diritto alla vita sarebbe, dunque, pregiudicato dal diritto alla ipotetica serenità del nascituro, non certa né oggettiva ma eventuale e dipendente dalla soggettiva sensibilità individuale.
Va, infine, rilevato che l'argomento che intende giusti­ficare, a posteriori, il divieto della fecondazione eterologa con l'ipotetica sofferenza del nato per l'igno­ranza della propria provenienza genetica appare irragionevole ed incoerente con principi ormai consolidati nel nostro ordinamento giuridico così come desunti dalla Suprema Corte di Cassazione da norme e principi costituzionali come quello che, ad esempio, nega al nascituro il diritto a non nascere ovvero a non nascere se non sano (cfr. Cass. n. 14488/2004 e Cass. n. 16123/2006), laddove appare evidente che l'ipotetica sofferenza psicologica (e, dunque, superabile) del nato per l'ignoran­za della propria provenienza genetica non può che reputarsi un trascurabile minus  rispetto alle tutt'altro che rare, spesso gravissime e non emendabili sofferenze perduranti per l'intera esistenza derivanti dalle tante malattie ereditarie e malformazioni congenite o acquisite in utero di cui sono purtroppo popolate le statistiche neonatali.
Inoltre, sotto il diverso profilo dell'esigenza di tutelare il nascituro nel senso di assicurargli con certezza stabili relazioni parentali, v'è da dire che, gli studi effettuati in materia (cfr., ad esempio, quelli messi a disposizione dai reclamanti) hanno accertato che solo una bassa percentuale di casi i genitori biologici hanno svelato al figlio la sua provenienza genetica e, in questi casi, lo sviluppo psico-sociale del figlio non si discosta da quello dei figli nati senza l'ausilio a metodi di fecondazione eterologa.
Peraltro, anche in questo caso, la nascita sarebbe preclusa dal possibile, ma non certo, pregiudizio che il figlio potrebbe subire dalla dissociazione tra maternità biologica e maternità genetica.
Di contro, invece, si stagliano i diritti, costituzionalmente protetti, di soggetti esistenti che sicuramente subiranno un pregiudizio in caso si perdurante divieto alla fecondazione eterologa.
Del resto, il nostro ordinamento prevede la possibilità di relazioni parentali atipiche dal momento che riconosce l'istituto dell'adozione.
Questo Collegio è consapevole che i presupposti e le finalità di tale istituto sono diversi da quelli posti alla base dell'ammissibilità della fecondazione eterologa, ma non può negarsi che anche nel caso dell'adozione può, in concreto, venirsi a creare, nell'adottato, una situazione di disagio psicologico – forse anche maggiore - per la non coincidenza tra maternità biologica (ovviamente compren­siva di quella genetica) e maternità affettiva, disagio forse anche maggiore rispetto alla qui temuta dissociazione tra maternità biologica (e affettiva) e maternità genetica laddove, in questo caso, alla maternità meramente affettiva si assomma anche il profondo legame della maternità biologica dato da quella profonda compenetrazione di corpo, di sangue e di nutrimento che lega, comunque, l'embrione prima ed il feto poi alla donna che lo tiene in grembo e dalle cui viscere, alfine, il neonato verrà alla luce.
E, certamente, nessuno ha mai sostenuto che la sofferenza che l'adottato possa, in futuro, patire per la mancata conoscenza del genitore naturale possa costituire un ostacolo all'adozione.
Del pari non sembra ragionevolmente potersi sostenere che la sofferenza che il nato da fecondazione eterologa possa, in futuro, patire per la eventuale conoscenza della mancata coincidenza tra (la sua) madre biologica e (la sua) madre genetica  - in fondo un minus  rispetto alla totale estraneità della madre adottiva - possa trovare brutale e paradossale rimedio nella negazione della vita stessa del nascituro.
Da quanto premesso, si deve trarre la conseguenza della perdurante necessità, anche alla luce della decisione della Grande Camera, che la Corte Costituzionale si pronunci in merito alla violazione ad opera della legge 40/2004 degli artt. 2, 3, 31, e 32 Cost. come già disposto dal giudice del Tribunale di Catania con ordinanza del 21.10.2010.

P.Q.M.

Visto l'art. 23 della legge 11.3.1953 n. 87;
ritenuta la rilevanza e non manifesta infondatezza, rimette alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 3, e dell'art. 9, commi 1 e 3 limitatamente alle parole “in violazione del divieto dell'art. 4, comma 3” e dell'art. 12, comma 1,della legge n. 40/2004, per contrasto con gli artt. 2, 3, 31 e 32, commi 1 e 2 Cost., nella parte in cui impongono il divieto di ricorrere alla fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo e prevedono sanzioni nei confronti delle strutture che dovessero praticarla, sospende il giudizio e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Avv. Antonino Sugamele

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